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rivista semestrale

anno XXXVII - terza serie

numero 91

gennaio/giugno 2025

Irene Fantappiè – Sergio Zatti, Il narratore postumo. Confessione, conversione, vocazione nell’autobiografia occidentale

[Quodlibet, Macerata 2024]

Il racconto in prima persona della propria vita ha nella nostra epoca una presenza capillare. Eppure l’autobiografismo non coincide con l’autobiografia. Il narratore postumo va alle radici di quest’ultima – intesa come genere letterario codificato – nella storia della letteratura occidentale. Zatti fa luce sulle dinamiche che hanno permesso al soggetto (e quindi all’autore in quanto soggetto) di superare l’interdetto autoreferenziale ed eleggere la propria esistenza a oggetto di rappresentazione letteraria, sfruttando la tensione tra esemplarità e eccezionalità.

Les Confessions di Rousseau costituiscono in questo senso un punto di svolta: battezzando l’ingresso dell’individuo borghese sulla scena della Storia, operano la fondazione moderna del genere autobiografico e ne stabilizzano le principali caratteristiche per i secoli a venire. D’altra parte, anche Rousseau – con la sua idea di autobiografia quale rivendicazione del giusto posto nel mondo, la sua concezione di lettore come istanza giudicante, e la sua insistenza, sin dal titolo, sul concetto di confessione – è legato a doppio filo alle radici (anche religiose e giuridiche) di pratiche preesistenti di scrittura di sé. Da qui un viaggio che inizia con Agostino e che passa per Dante, Tasso, Cellini, proseguendo con Alfieri, Proust, Joyce, Sartre, Woolf e numerosi altri e altre, per rintracciare storia e forme del genere autobiografico e le sue relazioni con la memoria e con la psicanalisi, per evidenziarne i processi di progressiva secolarizzazione e democratizzazione, nonché i legami con la fioritura del novel moderno e con la negoziazione di identità etniche e di genere.

Tra i vari nodi che tornano in questo percorso c’è l’interconnessione tra fictio autobiografica (riprendo proprio il termine fictio perché mai abbastanza sarà ribadito il coefficiente di costruzione di sé presente in qualsiasi autorappresentazione letteraria) e imitatio (letteraria e non). Il discorso “autentico” dell’individuo su sé stesso – quella confessione da cui scaturiscono tante narrazioni autobiografiche – è legato a pratiche imitative, spesso mediate da un libro che diventa strumento di conversione (come in Agostino che legge Cicerone o in Petrarca che legge Agostino) o di perversione (come nel V dell’Inferno). Al contrario, questo discorso dell’Io su se stesso diventa più difficile se non c’è, o è breve, la genealogia da imitare: ad esempio quando si tratta di “pensare il passato attraverso le nostre madri”, come scriveva Woolf. Ma l’articolazione del ragionamento di Zatti è impossibile da restituire in «Tremila battute». Mi limito a notare che, parlando di autobiografia, Il narratore postumo lancia/rilancia anche una determinata concezione di critica letteraria. Una critica che si immerge nei testi, pur senza tralasciare le dinamiche trans-storiche che li accomunano.

Una critica che non usa il passato per scardinare brutalmente le giunture del presente, eppure conferisce al presente la funzione di “fuori campo attivo”. Una critica certo diversa dai fantomatici prodotti della ricerca, che si vorrebbero sempre esaustivi e centratissimi: questo libro è sì il prodotto di una ricerca, ma anche della scelta (non idiosincratica: ragionata) di non sacrificare alla completezza la complessità. Una critica, infine, consapevole del fatto che una riflessione su un testo tira fuori innumerevoli risposte – e domande – non direttamente legate alla ragion d’essere di quella riflessione: ovvero, occupandosi di autobiografia Zatti ha scritto anche – tra le altre cose – un libro sul lettore, sulla storia del lettore come figura concreta e come istanza teorica che è precondizione dell’atto di scrivere. Il narratore postumo ci ricorda la capacità della critica di produrre un’analisi che, paradossalmente, più è centrata sul proprio tema e più diventa un discorso su altro: proprio perché il testo letterario ci permette di arrivare a determinate conclusioni solo nella misura in cui gli consentiamo di porci interrogativi diversi da quelli che gli poniamo noi.

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