[nottetempo, Milano 2024]
Ci sono tanti modi per parlare di Una rivolta: il più semplice è dire che si tratta della vicenda (drammatica, assurda, trascinante) di Luciano Franceschi, un indipendentista veneto condannato a sedici anni di carcere per aver sparato al banchiere che gli aveva negato un finanziamento per salvare l’azienda di famiglia. Insomma, potrebbe sembrare il mix già visto di Nord-Est, capannoni sventrati dalla crisi e leghismo animato da sogni di secessione. Ma questo libro è molto di più. Innanzitutto, per chi l’ha scritto: l’autore, Enrico Prevedello, non solo è nato e cresciuto nello stesso paese di Franceschi (Borgoricco, settemila anime esattamente a metà strada tra Padova e Castelfranco) ma ne ha frequentato per anni la casa, visto che era l’amico del cuore di uno dei suoi figli, Arturo.
Così, fin da quando era bambino, Prevedello ha potuto vedere «Ciano» mentre serviva i clienti dietro al bancone del caseificio Franceschi oppure quando, insieme ad altri tre o quattro «guerrieri di San Marco», si provava allo specchio la divisa da ufficiale della «polizia veneta». Prevedello sa che questa storia custodisce per lui qualcosa di «irragionevole e prezioso» (p. 33) e perciò riesce a maneggiarla con un tatto non comune: nel libro, Luciano non ci appare mai come un fanatico ridicolo, ma come una persona legata in maniera viscerale alla propria terra, alla sua storia, alle persone che la abitano, e sempre disposta a lottare per i propri ideali al costo della sua stessa vita. Luciano, infatti, è il ragazzino che alle medie organizza uno sciopero degli studenti e ottiene dal sindaco in persona la ristrutturazione del vecchio edificio pericolante, ma è anche l’adulto che ha un infarto quando viene a sapere che il suo amico d’infanzia si è impiccato a una gru perché non poteva pagare i dipendenti; è il compaesano che negli anni Ottanta riesce a far riaprire l’ufficio postale di Borgoricco ma è anche il carcerato che dopo soli quattro giorni di reclusione organizza una rivolta per trasbordare in massa i detenuti al Palazzo di Giustizia di Padova, o che si procura volontariamente un secondo infarto pur di uscire dalla cella d’isolamento.
Questa umanità emerge anche dal modo in cui Prevedello parla di altri personaggi della storia (come Bepin Segato e i «serenissimi» del commando che assaltò il campanile di San Marco nel maggio del 1997, alcuni dei quali riarrestati nel 2014 e subito ridicolizzati sulla stampa come «commando- mona» o «commando-polenta»), ma soprattutto dalle pagine che dedica ai familiari di Luciano (i figli, il fratello, la moglie Emilia, la madre Antonia, il padre morto suicida quando Luciano era ancora un bambino). La famiglia Franceschi – e il suo caseificio – sono, infatti, gli altri grandi protagonisti della narrazione, che viene scandita proprio dalle diverse versioni di una vecchia foto di famiglia in bianco e nero, dalla quale, capitolo dopo capitolo, riaffiorano i volti inizialmente anneriti; le parti più commoventi del volume sono il ricordo della malattia e della morte di Emilia (che Luciano rievoca nel diario scritto in carcere) e l’incontro finale tra Prevedello e Luciano, quando quest’ultimo (ai domiciliari per motivi di salute) è ormai tornato a vivere nella casa dell’anziana madre e trova a fatica le parole a causa di un ictus che gli ha compromesso il linguaggio. Per scrivere il suo libro Prevedello doveva risolvere questo stesso problema: come far parlare Luciano? Che voce dare alla sua parlata veneta, alle migliaia di documenti dell’autogoverno, al giorno di fuoco nella banca di Campodarsego? La sua scelta è di pescare con parsimonia dal diario di Luciano (ripreso alla lettera solo due volte, per il racconto della leucemia della moglie e della sparatoria in banca) e di non mimare o, peggio, scimmiottare il dialetto con esperimenti neoveristi. Il risultato è uno stile essenziale che sembra salire direttamente dai fossi che circondano Borgoricco. Una rivolta si legge e si rilegge, e si finisce sempre con le lacrime agli occhi: non servirebbe aggiungere altro.
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