[Carocci, Roma 2024]
di Raffaele Donnarumma
Elsa Morante, la vita nella scrittura è il risultato degli studi che, da circa vent’anni, Elena Porciani dedica alla scrittrice. Dopo diversi saggi monografici, Porciani ha scelto la strada del «profilo intellettuale», in cui la «produzione giovanile» di Morante è «una fase imprescindibile nella sua parabola di autrice» (p. 21); così, intreccia biografia e analisi testuale, tenendo presenti molti materiali dispersi o inediti, e concentrandosi «sulla sua scrittura e sullo spazio autobiografico che da essa è implicato» (p. 16). Ne viene un ritratto complessivo non solo guidato da idee interpretative chiare e passate al vaglio di una lunga ricerca, ma estremamente ricco e informato, con una ricostruzione anche fattuale accurata e attendibile: uno degli strumenti migliori per chi oggi voglia avvicinarsi a Morante e capire a che punto siano le discussioni sulla sua opera. La vicenda della scrittrice è scandita in fasi che rendono ragione di effettivi mutamenti di scrittura e di poetica, e quindi di una vocazione a cercare forme nuove e, nel Mondo salvato e in Aracoeli, a sperimentare; anche se, per un altro verso, Porciani punta sulle invarianti di «un immaginario fissato in un nucleo di riconoscibili costanti e schemi narrativi» (p. 22); immaginario che si codifica molto presto, e che giunge sino all’ultimo romanzo. Anche per questo, alla produzione giovanile (e addirittura infantile) è concesso un particolare interesse: tale, anzi, da far rimpiangere che molti testi (dal primo romanzo, Qualcuno bussa alla porta, del 1935-36, ai tanti racconti esclusi dallo Scialle andaluso e anche dai Racconti dimenticati del 2004) siano così difficilmente reperibili non dico per i lettori comuni, ma per gli studiosi.
È stata Morante stessa a confessare: «Per quanto creda sempre di inventare, ogni narratore, pure nella massima oggettività, non fa che scrivere sempre la sua autobiografia» (cit. a p. 197) e, almeno a partire da Garboli, il nesso vita-scrittura è un topos di molta critica morantiana. Porciani sa però che seguire sino in fondo questa strada comporta dei rischi e respinge «una certa vulgata ancora troppo propensa ad avvolgere Morante nello stupore mitizzante da lei stessa […] contraddittoriamente alimentato» (p. 16) (e sarebbe interessante capire come questa leggenda si sia propagata in un corpus nutrito di biografie più o meno romanzate e in alcuni testi letterari). Non credo che questa porosità tra opera e biografia (o, diciamo meglio, la sua rivendicazione) debba stupire: prima e più di certi rifiuti di Proust, del new criticism e dello strutturalismo, lo schema vie et oeuvre è un paradigma diffuso ben oltre Sainte-Beuve, e proclamato da un gran numero di scrittori dall’Ottocento a oggi. Semmai, stupisce in Morante il modo sempre mascherato, obliquo, pulviscolare con cui la materia della sua autobiografia si insinua nelle autobiografie (questa volta anche in senso formale) dei suoi personaggi fittizi. Da questo punto di vista, il caso Morante parla di una ferma volontà di evitare l’autobiografia in senso proprio anziché di un’adesione alla sua retorica. È una conferma al paradigma dell’«eccentrica modernità» formulato da Giovanna Rosa (p. 19), e che Porciani fa condivisibilmente proprio. Per gli stessi motivi, non sono convinto che La storia offra «l’inedito scenario di “un io di Elsa Morante”, che muove dalla volontà di rappresentare la propria persona reale come parte della stessa comunità a cui appartengono i personaggi: una Elsa-nel-testo, che […] vuole entrare con tutta sé stessa nel tessuto testuale» (p. 255). È comune che il romanziere ottocentesco (Flaubert è l’eccezione) parli come persona reale (ne ha scritto Pennacchio in Eccessi d’autore); e ci sono autori novecenteschi in cui l’interferenza è più esplicita (Pasolini in Petrolio, per restare vicini a Morante, richiamato di recente da Savettieri) o più corposa e ambigua (Gadda nell’Adalgisa). Sebbene giochi su un effetto di presenza e partecipazione testimoniale, Morante nella Storia sembra più reticente e cauta (lo documenta anche la cancellazione di un riferimento al proprio nome, in una stesura anteriore, giustamente citata a p. 255): le tracce di un personaggio Elsa, insomma, sono troppo labili e disperse perché questo personaggio acquisti consistenza. È senz’altro vero che «la variegata fenomenologia dell’io narrante nel testo [della Storia] non può essere ridotta a una onniscienza eterodiegetica», date le «improvvise emersioni della prima persona» (p. 253); ma allora, converrebbe pensare a una formazione di compromesso fra emersione della voce dell’autrice (cioè proprio di Elsa Morante, non semplicemente di una narratrice disincarnata) e nascondimento della sua persona.
Al di là di questi aspetti su cui si può tornare a discutere, l’analisi di Porciani resta coerente e ragguardevole per estensione e profondità. Vengono così suggeriti su basi solide i contorni di una “funzione Morante” che merita senz’altro indagini ulteriori e specifiche: metterei forse da parte la nozione di «ipergenere romanzo, nel quale confluiscono varie modalità narrative» (p. 41), visto che questa apertura è inscritta proprio nel romanzo come genere; mentre credo vada senz’altro riconsiderato un antifemminismo che Porciani dimostra essere stato meno lineare e pronunciato di quanto spesso si dica (p. 25). Sola scrittrice ammessa nel canone scolastico per nove secoli di letteratura italiana, Morante ha esercitato un influsso e lasciato un’eredità (e non solo fra altre scrittrici: bastino i nomi di Dario Bellezza e di Walter Siti, come ha mostrato Simonetti) sulla cui entità non sappiamo ancora molto, e che solo partendo da un’idea esatta di Morante stessa si potrà definire.
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