[Mubi, 2024]
Witches, l’ultimo film della regista e musicista britannica Elizabeth Sankey, porta sullo schermo un racconto stratificato e complesso: è il memoir testimoniale della depressione post partum dell’autrice («What follows is my testimony» ci viene detto nei primi minuti), una raccolta di interviste a donne che hanno avuto esperienze simili di disturbi psichici perinatali, una riflessione sul cinema e sul suo valore rappresentativo e, infine, un’analisi storico-sociologica della caccia alle streghe e dei lasciti invisibili di questa nella cultura occidentale contemporanea. Il documentario parte da una rassegna di scene dei film che hanno plasmato un certo immaginario pop – e non solo – sulle streghe (tra i più memorabili si riconoscono The Craft, The Wizard of Oz, Elvira: Mistress of the Dark, The Witches of Eastwick): un assemblaggio su cui Sankey cuce filmati famigliari di sé bambina e stralci di prove attoriali nelle quali anche lei interpreta verosimilmente il personaggio di una strega; mentre le immagini si susseguono, la voce fuori campo della regista spiega le relazioni storiche tra follia, madri considerate devianti e proiezioni demoniache del patriarcato. L’accostamento di materiale artistico a elementi visuali autobiografici non solo crea un orizzonte di riferimento composito e tematicamente coeso, ma funge soprattutto da cornice dentro cui la voce prende corpo: attraverso un’inquadratura frontale, adesso Sankey si palesa raccontando la crisi depressiva seguita alla nascita del suo primo figlio nel 2020, l’incontro con il gruppo chat Motherly Love, il ricovero presso una Mother and Baby Unit.
Le interviste successive costituiscono il nucleo del film e dipingono un affresco di esperienze di vita e di maternità altrettanto eterogeneo quanto il repertorio visuale che l’autrice maneggia nel frattempo (film, immagini di quadri e stampe antiche, stralci di pubblicità, materiale privato d’archivio). È significativo che a parlare siano donne con profili mediatici e capitali simbolici differenti: esterne al campo della medicina, mediche, accademiche, personalità già note per aver raccontato la storia di una maternità non conforme (come Catherine Cho, autrice di Inferno: A Memoir of Motherhood and Madness, in cui parla della sua psicosi post partum), attrici; non passa inosservata la presenza di un uomo, David Emson, ex compagno della psichiatra Daksha Emson, che nel 2000 scosse l’opinione pubblica inglese per aver ucciso la figlia di tre mesi e poi se stessa.
Il carattere ibrido dell’opera è costruito lavorando su due piani, opposti e allo stesso tempo complementari. Innanzitutto, sul piano della testimonianza diretta e priva di filtri: il racconto in prima persona presenta fatti e azioni come realmente accaduti, e trova nell’intervista-confessione uno strumento di denuncia e di liberazione (il terzo degli incantesimi che scandiscono il tempo del documentario recita infatti: «Speak your evil. You will find mercy in confession»). Sull’altro livello, invece, ci sono le immagini. Il repertorio cinematografico che scorre sullo sfondo instaura con le vicende narrate un rapporto ambivalente: mentre le materializza legittimandone la parola sul piano estetico, inevitabilmente le filtra e, ancora, si lascia filtrare da esse. Questo citazionismo denso, che è la cifra stilistica di Sankey già da Romantic Comedy (2019), può così mettere in scena un contenuto difficile da pronunciare, ostile a una figura di madre protettiva («We like to think that mothers are the place of ultimate safety»), o persino rimosso dall’immaginario collettivo in quanto moralmente scomodo. Witches dimostra che ancora oggi il discorso sulla maternità non è esaurito, e che è necessario costruire qualcosa di nuovo sulle macerie delle retoriche repressive: Elizabeth Sankey ci è riuscita affidandosi alla propria voce e a quella delle altre, intessendo un legame ambiguo con l’eredità fantasma delle streghe e credendo nel potere combinatorio, evocativo e magico del mezzo cinematografico.
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