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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Silvia Cassioli – Il capro

[ il Saggiatore, Milano 2022 ]

C’era bisogno di un altro libro sul Mostro di Firenze? La storia è nota, trita, datata, nonché orrenda.
A che pro riscriverla, e perché rileggerla?
Perché, come la racconta Cassioli, la storia del Mostro non l’ha ancora raccontata nessuno. Il capro ripercorre i delitti del Mostro e l’indagine che li ha accompagnati e seguiti per oltre un decennio. La vicenda di Pacciani fa sì da perno alla storia, ma s’interseca a quelle di tutti i personaggi legati ai fatti: dalle vittime ai «compagni di merende», dai sospettati ai mostrologi di turno, dagli investigatori ai curiosi sulle scene dei crimini. Così il romanzo non si riduce alla biografia di un assassino né al resoconto di un fatto di cronaca, ma è il tableau inedito di una serie di eventi e dell’epoca che li ha resi possibili.
A narrare la vicenda sono tutti i personaggi. A ciascuno Cassioli lascia la sua voce perché racconti il proprio pezzetto di storia al presidente della Corted’assise, che invece non parla mai e nei cui panni il lettore si ritrova per provare a tirare le somme. Un compito ingrato, dato il caos delle indagini che l’orchestrazione sapiente riproduce bene. Dialetti, accenti, posture, idioletti, poi, costituiscono un repertorio di scrittura oralizzata da cui emerge, più che un coro, un vociare in mezzo al quale è difficile isolare una versione dei fatti, una sola personalità. Il capro, infatti, non è il romanzo del Mostro né il romanzo delle sue vittime, bensì un libro di accusa contro ciò che i suoi crimini rendono evidente: la profonda misoginia della società italiana che si manifesta e si tramanda nei gesti e nelle parole di tutti, il «sereno disprezzo […] ignorante, inculcato di generazione in generazione, […] che non aveva nemmeno bisogno di essere spiegato». Così il Mostro si rivela non solo il prodotto di una cultura che ha interiorizzato la violenza sulla donna come un fatto naturale, ma anche «un altro inutile capro espiatorio» di cui quella cultura si serve per discolparsi e perpetuarsi.
«Come se il male si potesse concentrà tutto su un omo», mentre il male è ovunque, in ogni ipotesi di chi compiange una vittima come «un bravo ragazzo […] che una sera era uscito e non era più tornato » e la sua amante invece come «una femmina sfiorita, brutta, sporca, degenere, immorale e spendacciona», e chi ritiene «normale» che «se, moglie, non la dai, […] l’omo vada a puttane», e che ammette che «le puttane muoiono ammazzate da che mondo è mondo […], che ci vuoi fare, la fiha è un parafulmine fantastico». È che il male nasce nella lingua, nella parola quotidiana che riflette e alimenta il sessismo bigotto sopravvissuto indenne alla rivoluzione sessuale.
Mentre la bienséance fa sì che i giornalisti «alludano […] per non turbare, per non scandalizzare», la scrittura cesellata di Cassioli turba e scandalizza. L’inquietudine che accompagna le pagine finali, ispirate al Bolaño della Parte dei delitti, è così testimone della libertà e della maestria con cui l’autrice ridà vita alla lingua del romanzo.

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