[ a cura di M. Pirro e L. Zenobi, Quodlibet, Macerata 2022 ]
Il carteggio tra Goethe e Schiller, di cui Maurizio Pirro e Luca Zenobi ci consegnano la prima, accuratissima traduzione integrale – dopo quelle meritorie ma parziali di Renzo Lustig (Rinascita del Libro 1938) e di Antonino Santangelo (Einaudi 1946) – è un oggetto quasi leggendario nel canone della letteratura tedesca: questo monstrum di 1013 lettere e quasi mille pagine costituisce infatti la fonte principale per lo studio del cosiddetto classicismo weimariano, fenomeno di rilevanza estetica europea che coincide perfettamente con l’arco cronologico che va dalla prima lettera di Schiller a Goethe, il 13 giugno 1794, alla morte del primo dei due, il 9 maggio 1805. Fu infatti il secondo, Goethe, a pubblicarlo e a conferirgli una prima aura mitica, quando negli ultimi vent’anni della sua lunga vita si dedicò a stilizzare la propria biografia attraverso un progetto editoriale che non ha eguali per ampiezza e ingegnosità. Come Pirro osserva nell’introduzione, Goethe concepisce infatti il Carteggio «come una sezione della sua autobiografia». Che comprende un testo biografico in senso stretto, Poesia e verità (1811-14), un’opera che si colloca, innovandola, nella tradizione odoeporica settecentesca, il Viaggio in Italia (1816-17), due reportage di guerra, La campagna in Francia e L’assedio di Magonza (1822), un epistolario, appunto il Carteggio con Schiller (1828-29), e le conversazioni raccolte nei Colloqui con Goethe (1836-48) dal segretario J.P. Eckermann, che lo scrittore era riuscito ad asservire al suo monumentale progetto, facendogli realizzare un’opera di Goethe per interposta persona. Con questi cinque tasselli – a cui si potrebbero aggiungere gli appunti dei Diari e annuari (1830) – Goethe non solo arriva a documentare pressoché l’intero arco della sua vita, ma attraverso la varietà dei generi ne dà una rappresentazione plastica, estesa ai più diversi aspetti. Se in Poesia e verità domina il romanzesco (vedi la recensione su «Allegoria » 79, p. 176) e nel Viaggio in Italia l’estetico, nel Carteggio domina invece la dimensione del lavoro quotidiano. Che è incredibilmente ricco: per circa dieci anni Goethe e Schiller – che vivono rispettivamente a Weimar e Jena, separati da appena una trentina di chilometri – si scambiano una media di due lettere a settimana tutte fitte di cose fatte o da fare. Non c’è molto spazio per la vita privata (si sorvola rapidamente anche sulla morte dei propri cari) o per discussioni approfondite (ad eccezione di quella su epica e dramma analizzata da Lukács in un noto saggio), perché bisogna scrivere una ballata per le «Horen» o un saggio per i «Propyläen», commentare l’ultimo numero del «Teutscher Merkur» di Wieland o un recente volume di Herder, raccogliere osservazioni sulla muta delle farfalle o sulla teoria dei colori, leggersi a vicenda le ultime cose messe su carta – che siano un libro del Wilhelm Meister o una delle Lettere sull’educazione estetica dell’umanità, il finale dell’Arminio e Dorotea o qualche scena del Wallenstein – e ancora affilare uno xenion contro quel pedante di Nicolai o rispondere per le rime a una provocazione di Voss o degli Schlegel. Una fucina di esperimenti letterari in febbrile attività, ma anche un campo di battaglia, da cui esce il ritratto di un Goethe tutt’altro che olimpico, bensì pugnace e aggressivo, impegnato insieme ai suoi alleati – non molti, a dire il vero: Schiller, Meyer, Humboldt e per certi versi Jean Paul e il giovane Hölderlin se non fossero «rimasti così soggettivi, così esaltati, così unilaterali» – a condurre una quotidiana guerra di trincea per imporre la propria visione della letteratura (oggettivistica, universalistica, classica) contro quelle concorrenti dei moralisti religiosi, dei nazionalisti politici, degli illuministi irrigiditi o dei romantici confusionari. Il Carteggio è in questo senso un documento unico e fondamentale per uno studio materialistico – e verrebbe quasi da dire: agonistico – della letteratura.
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