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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Tiziano Scarpa – La verità e la biro

[ Einaudi, Torino 2023 ]

I primi libri di Scarpa hanno un tratto comune: il testo è un messaggio che il protagonista indirizza a un “tu” ben situato. In Occhi sulla graticola (1996) Alfredo parla al sé del futuro, in Kamikaze d’occidente (2003) Tiz si racconta al governo cinese, in Stabat mater (2008) Cecilia scrive a sua madre, e così via. L’apostrofe è una delle figure più importanti del discorso di Scarpa. Nella Verità e la biro, dopo tre romanzi d’impianto più tradizionale (Il brevetto del geco, 2016; Il cipiglio del gufo, 2018; La penultima magia, 2020), Scarpa trova nella parola autobiografica il modo più diretto per configurare l’opera come un messaggio rivolto a un destinatario preciso. A parlare, questa volta, è Tiziano Scarpa, e il suo destinatario è l’insieme generico dei lettori. Il suo discorso è indotto, tra le altre cose, da una «brutta diagnosi» clinica (p. 210): l’improvvisa (e imprecisata) malattia suscita un bisogno di franchezza che conduce a una prima persona veridica e trasparente. Il suo messaggio è una meditazione sulla verità, intesa come qualcosa di conflittuale, stratificato e inaccettabile che la società deve nascondere e la letteratura può rivelare non malgrado ma grazie al suo carattere artificioso. La sua scrittura, infine, agile nella sintassi e virtuosistica nel lessico, è frammentata in blocchi di poche pagine, in un montaggio serrato che fa di tutto per trattenere l’attenzione del lettore.
Più che un esauriente resoconto autobiografico, La verità e la biro è un’indagine conoscitiva sulla verità, condotta a partire da poche esperienze pregnanti (su tutte, un viaggio in Grecia nell’estate del 2021). L’«io» di Scarpa non è tanto un personaggio-protagonista, quanto un modo di dizione che consente una schiettezza preclusa o smorzata da altre forme espressive. Scarpa giura sulla veridicità di quanto racconta e, come gli storici greci, si limita a riportare ciò che ha visto direttamente o gli è stato riferito da testimoni autorevoli: sia che narri aneddoticamente la propria esperienza, sia che ricorra a una gran quantità di riferimenti culturali (giochi etimologici, riflessioni sul teatro greco, ecc.), la sua priorità sembra essere quella di istituire una comunicazione orizzontale con il lettore, al quale dire in modo diretto alcune cose fondamentali e tragiche di cui ci si prende la piena responsabilità.
Scarpa, per esempio, rivendica di aver sempre perseguito la verità in quanto scrittore, e dichiara di non aver voluto figli per poter dire la verità senza compromessi, ma ammette di ritrovarsi intorno ai sessant’anni col dubbio di aver accumulato «un patrimonio assurdo», cioè «la letteratura» (p. 43). Oppure, mentre argomenta il valore etico della sua proposta narrativa, si definisce per altri versi «un predatore […] a caccia di successo» (p. 78). Insomma: nella Verità e la biro Scarpa rincorre una possibilità enorme, quella di rivolgersi da pari a pari all’intera società di cui si fa parte, scrivendo in modo tanto complesso quanto accessibile e partendo da nient’altro che la propria esperienza di vita severamente vagliata. Molti scrittori, oggi, si oppongono all’idea che la scrittura dell’io sia intrinsecamente mistificatoria. Scarpa, collocandosi su questo sfondo, si distingue in positivo per due motivi: da un lato, rivendica con forza il valore storico della parola autobiografica, senza darlo per scontato; dall’altro, non dimentica che ogni confessione implica, se non una menzogna, di certo una messa in posa. La sua ambizione è realizzare un racconto che ammetta e insieme riscatti la mendace parzialità di ogni scrittura in prima persona – «La punta estrema della mia nudità», osserva parlando del suo glande, «assomiglia a un elmo per proteggersi durante gli assalti» (pp. 166-167). Scarpa, così, si tiene felicemente in equilibrio tra il rischio di dissolvere l’esperienza nel linguaggio e la tentazione di presumere che il linguaggio possa contenere l’esperienza con obiettività. Nella Verità e la biro egli non fa né una cosa né l’altra, ma propone, appunto, un racconto «senza troppi infingimenti» (p. 210), una testimonianza sincera fin dove si può.

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