[trad. it. di L. Di Lella, F. Scala, Adelphi, Milano 2021]
Uscito nel 2020 in Francia, Yoga è l’ultimo tassello del disegno letterario che Carrère ha allestito negli ultimi venti anni, da quando, con L’avversario (2000), ha abbandonato la narrativa d’invenzione. Yoga è innanzitutto il racconto di un progetto fallito di scrivere «un libricino arguto e accattivante sullo yoga» (p. 7).
La narrazione parte dal ritiro di Vipassana: una scuola di meditazione di dieci giorni, in totale isolamento dal mondo esterno, che Carrère frequenta all’inizio del 2015. Questa parte è interamente dedicata al racconto dei primi giorni, alla difficoltà di non poter interagire con gli altri partecipanti e alle continue riflessioni del narratore-autore sullo yoga. C’è un che di piacevolmente divulgativo e didascalico nelle pagine che Carrère dedica all’argomento: con la consueta autoironia racconta del suo avvicinamento alla meditazione e della scoperta sorprendente di un insieme di pratiche che realmente gli hanno donato una consapevolezza nuova, che finalmente gli permettesse di concentrarsi un po’ di più sugli altri e meno su sé stesso. L’intonazione stilistica è quella, ormai ben congegnata, degli altri suoi libri: una voce schietta che, con una disinvoltura tutta calcolata, intreccia autobiografia, saggismo e racconto aneddotico. Il modello è, dichiaratamente, la scrittura Montaigne, un autore che «scrive quello che gli passa per la testa, infischiandosi altamente dell’opinione di chi dice che di quello che passa per la testa a lui non importa a nessuno» (p. 93).
Dopo soli quattro giorni – e siamo verso la metà del libro – il ritiro spirituale viene interrotto da una notizia che costringe Carrère a tornare a Parigi: c’è stato un attentato terroristico nella redazione di Charlie Hebdo e Bernard Maris, suo amico, è stato ucciso, insieme ad altri dodici redattori. Lo scrittore viene incaricato di scrivere l’orazione funebre per il suo amico e, riflettendo sul dolore di un evento così insensato, rivaluta i suoi giorni in ritiro e la stessa rivoluzione promessa dalla meditazione («l’arresto delle fluttuazioni mentali», p. 84). Tra le lacrime e il sangue di Parigi di quei giorni del 2015 e il conclave di meditanti che ha appena lasciato percepisce uno scarto che lo porta a riconsiderare l’idea del suo libretto «arguto e accattivante sullo yoga».
Da questo punto sembra iniziare, dunque, un libro diverso, molto slegato dalla prima parte della narrazione: è il racconto di una depressione durata quattro anni («Storia della mia pazzia» è il titolo del terzo capitolo), con tanto di ricovero ospedaliero, elettroshock e diagnosi di bipolarità grave. Dopo circa dieci anni di quiete psichica, dice Carrère, accompagnata da benessere familiare e buona vena creativa, l’equilibrio si è rotto violentemente.
La narrazione prosegue con la decisione dello scrittore, ormai in via di ripresa, di trascorrere due mesi a fare il volontario in un campo profughi su un’isola greca: il racconto di questa esperienza occupa tutta l’ultima parte del libro, con un accostamento sotterraneo ma continuo tra il dolore dei migranti del campo e la sua crisi depressiva di uomo bianco e ricco. Se in altri casi (L’avversario, Limonov) la giustapposizione tra il sé autoriale e vite umane al limite aveva creato un cortocircuito spiazzante ed efficace, in questo caso l’operazione è moralmente ambigua e letterariamente fallimentare, finendo in un resoconto noioso, senza nessun piglio speculativo. Il libro si conclude con un lieto fine posticcio: la promessa di un amore e di una nuova presa di coscienza. Quello che era il racconto di un libro fallito diventa a sua volta un’occasione mancata.
I temi messi in campo sono tanti e promettenti (meditazione, scrittura, depressione, egocentrismo) ma l’esecuzione di Carrère risulta stanca e rabdomantica, finendo nelle ultime pagine del libro – forse anche per motivi legali – a ripetere pruriginose formule sulla veridicità e mendacità del suo racconto; lasciandoci, piuttosto, con il dubbio che siano proprio le scritture non finzionali à la Carrère a mostrare oggi, dopo anni felici, un po’ la corda nel racconto del presente.
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