[ Garzanti, Milano 2024 ]
A Tito, «un cane come noi»
La quinta raccolta poetica di Stefano Dal Bianco, uscita a dodici anni dalla precedente Prove di libertà, è già un classico: non solo per i riconoscimenti ottenuti (Paradiso ha vinto, tra gli altri, i due premi maggiori attribuiti alla poesia in Italia: il Viareggio e lo Strega), ma anche per le caratteristiche del libro e della poetica che esprime. Poeta selettivo, Dal Bianco lascia che l’esperienza si depositi in un tempo dilatato, per poi concentrarsi nella scrittura: anche in questo si apprezza un tratto di classicità, che l’autore di Paradiso condivide con due modelli più o meno attivi ma certamente presenti nella sua poesia: Leopardi e Sereni (a questi si affianca sempre Petrarca, e qui anche il Robert Frost di Fuoco e ghiaccio).
Il nuovo libro sembra cominciare dove si chiudeva Prove di libertà: nella prosa finale di quella raccolta, Essere umani, si leggeva l’auspicio di una condizione raggiunta qui in Paradiso: «diciamolo a tutti: fermiamoci, entriamo di notte nel bosco e ascoltiamo ». A realizzare quell’auspicio è stata una contingenza recente, il confinamento per la pandemia, che si è trasformato in “paradiso”, cioè nello spazio delimitato che è sfondo e tema della raccolta: la Val di Merse, con l’Amiata in lontananza. È il luogo dove Dal Bianco vive da molti anni e di cui si è finalmente appropriato con i tempi personali e inattesi della poesia; l’esperienza del luogo è condotta insieme a Tito (2019-2024), il Jack Russel terrier che dà corpo a una diversa e complementare prospettiva. È certamente una figura filiale (Ai figli che ritorneranno è la dedica in epigrafe), ma è anche il soggetto alternativo di una percezione sensibile, da cui deriva anche una diversa idea di emozione e perfino di conoscenza (il rapporto con la natura in Paradiso non è una condizione fusionale; è una conoscenza che passa per via di relazione anziché di controllo).
Paradiso è anche il titolo della sezione centrale e più ampia del libro, preceduta da Appuntamento al buio e seguita dal congedo di Vento d’autunno. La seconda parte, anteriore anche rispetto al tempo della scrittura, è quasi un “purgatorio”: nel senso che la condizione di immobilità in quei versi implica ancora il residuo dolore lasciato da un distacco, da una rinuncia pur riconosciuta come necessaria. Più avanti invece l’immobilità sarà una condizione per «fondare un alfabeto», per «restare nel quadro» (potremmo anche dire: nel recinto del paradiso).
La sezione eponima si apre con questi versi: «Ciò che si vede dalla mia finestra / è stato bellissimo sempre». È un incipit emblematico, perché contiene gli elementi che meglio caratterizzano il libro: la ricevibilità del senso e la classicità del passo come forma di un’esperienza radicale della poesia, che non sfuma mai nella vaghezza di un “assoluto”, non si compone nel semplice idillio, non astrae il concetto dalla materia che lo genera. La presenza di Tito ha una funzione importante perché bilancia e collega cielo e terra, mente e sensi: «Tito ha il naso rasoterra / tutto il tempo perché tutto / profuma di qualcosa / e io ho il naso per aria / perché il profumo è altrove / perché niente mi basta sulla terra» (Tutto il paese dorme…). Se si dà una trascendenza, questa è possibile nell’immanenza delle cose sensibili; allo stesso modo, la comunione può avvenire nella ripetizione: come nel gesto che reitera il lancio dei sassi nell’acqua, creando la condizione per un ironico, demistificato animismo (Se si rimane a lungo…).
Il libro stesso è fatto di iterazioni e variazioni, di abitudini (come quella di registrare i versi camminando) che rendono possibili attimi miracolosi. Anche la forma della poesia, sapientemente variata nella costanza, sembra corrispondere a questa dialettica. Ritmi e misure autorizzate (specialmente dell’endecasillabo) sono percepibili anche quando il verso si dissimula in altri metri, distendendosi a volte in versi lunghi, forse colloquiali all’apparenza, non nella sostanza. Perché «l’abituale per natura», si legge in Se ritornare a quelle foglie secche, «non ama l’abitudine / e per difesa cerca solo ciò che non ritorna».
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