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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Marina Garcés – Scuola di apprendisti

[ trad. it. di S. Puddu Castellani, Nutrimenti, Roma 2022 ]

Pubblicato nel 2022, è stato subito tradotto in italiano da Stefano Puddu Crespellani l’ultimo libro della filosofa catalana Marina Garcés, Escola d’aprenents. Con pazienza e finezza, in queste pagine Garcés scioglie i grandi nodi retorici del discorso pubblico sull’educazione. Guida il suo ragionamento la domanda di fondo «come educare?», a partire dall’assunto che «questo come» è prima di tutto «il come dell’etica, della politica e della poetica», dato che – scrive – «chiederci come educare vuol dire chiederci come vogliamo vivere» (p. 19). A ciò si salda uno spostamento del punto di vista: ribaltare la domanda come educare? in come vogliamo essere educati? introduce una prospettiva critica interna ai processi di apprendimento, permette di «abbandonare la superiorità del pianificatore e del legislatore», di «uscire dalla condizione eterodiretta e pressoché clientelare dei ricettori dei suoi programmi» e di compiere un prezioso «esercizio dell’immaginazione». La chiave, allora, non è «mettere il bambino o lo studente al centro, come predicano alcune correnti pedagogiche», bensì – cosa affatto diversa – inquadrare il tema dell’educazione attraverso lo sguardo dell’apprendista, una figura declassata dal pensiero pedagogico, perché «associata al mondo del lavoro manuale e alla sua poca nobiltà sociale e spirituale» (pp. 20-22). L’apprendista sta da subito dentro la cornice dell’ordine produttivo, fondato sulla disuguaglianza e sulla violenza strutturale, perciò riscattarlo «come punto di vista sulla riflessione pedagogica nel suo insieme» significa uscire dall’orizzonte entro cui si estende il dibattito sull’educazione e denunciare il suo legame con il sistema del «capitalismo cognitivo».
E così, grazie a una raffinata strategia discorsiva che accerchia e spinge verso l’implosione, Garcés illumina la radice infetta del mito dell’innovazione didattica, che è oggi centrale nel discorso pubblico sull’educazione. Il mito deriva dallo schema argomentativo per cui, di fronte a un futuro caratterizzato da cambiamenti imprevedibili, l’educazione non può che scommettere su un «atteggiamento perennemente innovativo», ovvero capace di adattarsi alle novità: «la crisi del mondo viene così ridotta all’impero dell’imprevedibile, e i buoni risultati educativi alla capacità di offrire risposte efficaci»; ecco perché il dibattito pedagogico tende pericolosamente a ridursi a «rivalità tra metodologie», che orientano, rispetto ai grandi cambiamenti del mondo, più all’adattamento che all’immaginazione. In tal modo «l’impulso emancipatorio dell’apprendimento viene ridotto a una tecnica competitiva che restringe il senso della libertà all’esercizio di una servitù adattativa» (p. 118).
Il mito dell’innovazione didattica dà corpo al fenomeno che Garcés chiama disrupzione (che di per sé è la capacità di rottura e riposizionamento in campo imprenditoriale) «fatta pedagogia»: «ciò che funziona non è più la catena di montaggio o di comando, ma l’adattamento costante al cambiamento e all’incertezza come nuove forme di obbedienza » (p. 142). In un sistema educativo fondato sull’agonismo della servitù adattativa, il buon alunno è dunque «colui che si adatta meglio a circostanze che non cambia, ma che trasforma in una riserva di opportunità» (p. 146).
Ma, in un tempo che esclude l’immaginazione del futuro, è possibile – si chiede infine la filosofa – inventare azioni di contrattempo nell’educazione? Garcés consegna al lettore l’immagine di una possibile alleanza degli apprendisti, intesa come «alleanza di estranei» che faccia dell’educazione «un’esperienza di estraneazione», per «apprendere a non sapere, aver cura dell’ombra, della mancanza, del vuoto» (p. 159), e uno spazio che rende uguali i disuguali, perché «l’uguaglianza non sta mai nel punto di partenza» (p. 166). È questa la «scuola di apprendisti » che dà il titolo al libro: è una scuola in cui «rendere prossimo ciò che è estraneo ed estraneo ciò che è prossimo» costituisce un metodo di avvicinamento alla complessità del presente e, pertanto, alla possibilità di «immaginare il futuro» (p. 196).

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