[ introduzione di L. Tassoni, Mimesis, Milano-Udine 2017 ]
La raccolta delle interviste di Milo De Angelis consente di riattraversarne l’opera dall’esordio di Somiglianze (1976) a Incontri e agguati (2015), di cui si ripercorrono o anticipano temi, circostanze, protagonisti. “La parola data” vale come invito, da parte dei diversi interlocutori, a fornire chiarimenti di poetica nelle più diverse direzioni, dalla verifica filologica all’aneddoto personale: le risposte fungono da vere e proprie razos, premessa completamento e prosecuzione di un’ininterrotta indagine sull’esistenza, svolta di preferenza in versi. Se Contini spiegava Dante con Dante, l’intervista è per Milo (curiosamente chiamato dai critici per nome) l’occasione di ribadire attraverso continue autocitazioni i motivi, le occasioni, le memorie da cui originano i singoli libri, pure così diversi l’uno dall’altro (dalla contratta oscurità dei primi alla narrazione in versi di Biografia sommaria o dell’ultimo). Motivi, occasioni, memorie che sono anche figure e oggetti totemici, dal “cortile” alla “sillaba”, col rinvio a un senso che si dispiega nella congiunzione tra attimo ed eterno: quel kairós che garantisce alla poesia di distinguersi dal fatto consueto, «cronaca, volantino». Il tempo, ripete Milo, è sovrastorico: da qui la necessità di dire tutto nel modo più indeterminato possibile, per avvicinarsi all’essenza. Al contempo, ogni memoria è restituita dai versi nella sua unicità, per sottrarre gli eventi al repertorio del luogo comune, del replicabile, del già detto. Così in Tema dell’addio (2005), threnos per la donna amata, l’affondo in quel misterioso e implacabile avvenimento che è la morte si fa tema universale, indagato con lucida empietà. Non stupisce che venga a emergere, come corollario di riflessioni assolutizzanti, un’idea artigianale e insieme sacrale dell’attività poetica: compito quotidiano, vocazione, esercizio che richiede dedizione, sacrificio e silenzio (idea che torna nel fondamentale testo di poetica in Tutte le poesie, 2017). Ed ecco, connesso al motivo della disciplina e dell’esercizio, l’altro tema tipicamente deangelisiano (insieme all’adolescenza come tempo “iniziale”) dello sport, del gesto atletico come sfida e teofania, nell’attimo in cui tutto avviene e si consuma. Se la squadra, patto di alleanza tra maschi, è il contesto in cui si avverte per la prima volta la fascinazione dell’essere compagni, l’apparizione delle atlete funge da rivelazione o apprendistato amoroso, battaglia lucreziana dei corpi che richiede una grande prova di resistenza fisica e psicologica: «il resto è roba da panchina, abbracciamenti» (così in una poesia di Somiglianze).
Tra i tanti dialoghi, in cui l’acribia delle domande potrebbe talvolta fuorviare dalla vera interrogazione di senso, spicca quello con le “ragazze cinesi”, che danno all’intervistato la possibilità di ridefinire la propria concezione della poesia come strumento di comunicazione e di relazione, malgrado la proverbiale oscurità. Il compito principale del poeta non è parlare chiaro e rivolgersi a tutti, ma sondare l’insondabile, avvicinarsi ai misteri dell’esistenza con «coscienza millimetrica degli abissi e lucido sguardo ad ampio raggio»: donde gli accostamenti inediti tra le cose, che non sono ossimori ma rivelazioni. La poesia, si raccomanda Milo, va letta senza note a piè di pagina, «nella sua splendida nudità». Non distante dal clima delle interviste, anzi suo presupposto o integrazione, è il video-doc allegato, Sulla punta di una matita, in cui Viviana Nicodemo, che ne firma soggetto e regia, rivive per immagini il percorso poetico di De Angelis in singoli capitoli scanditi esclusivamente dai rispettivi ambienti, fisici o ideali: il cortile, il Monferrato e l’infanzia, la scoperta adolescenziale di Milano e la poesia, gli incontri con le “anime vaganti”, il carcere. Il tutto alternando a primissimi piani campi lunghi e dettagli di luoghi prima che della poetica di Milo, della sua anima: ammesso che sia possibile distinguerle in chi ha scritto versi come «in noi giungerà l’universo, quel silenzio frontale dov’eravamo già stati».
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