[a cura di A. Buttarelli, La Tartaruga, Milano 2023]
di Rebecca Molea
Di Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi sono state pubblicate negli anni diverse edizioni, tutte ormai introvabili: da quella storica del 1970, che raccoglieva solo il saggio a cui il libro deve il titolo, proseguendo con quella del 1974, che ampliava il testo con scritti similmente provocatori come il famoso La donna clitoridea e la donna vaginale, fino a una, più recente, del 2013, presto andata fuori catalogo. Eppure, all’epoca della sua apparizione, Sputiamo su Hegel ebbe un’incredibile risonanza nei circoli accademici italiani, per i toni violentemente polemici con cui attaccava la cultura filosofica e politica tradizionale e ne denunciava le radici patriarcali, in uno sforzo di deculturalizzazione che non risparmiava neanche i padri del pensiero occidentale (da Hegel a Marx).
È quindi una buona notizia che il libro sia tornato oggi alle stampe grazie all’impegno della storica casa editrice femminista La Tartaruga, che a Lonzi dedicherà un’intera collana. L’edizione di Sputiamo su Hegel, curata da Annarosa Buttarelli, inaugura questo percorso di riscoperta tardiva accompagnando il corpo originale del testo con una premessa che esaurisce nel giro di due pagine le ragioni della mancanza di un apparato critico, in questa e in tutte le opere dell’autrice che di qui in futuro verranno pubblicate: «questi sono scritti che non sopportano commenti, spiegazioni, interpretazioni che spegnerebbero la loro forza travolgente» (p. 2).
Se la scelta di riportare alla luce l’opera di Lonzi deve essere intesa, anzitutto, come un’operazione di giustizia storica, vi sono altre ragioni per cui rileggere queste pagine oggi è importante, a partire da quell’invito a diffidare dalle pretese di uguaglianza e universalità diffuse nel discorso politico e ripensare il sapere dalla prospettiva marginale del “femminile”, «eterna ironia della comunità» (p. 27). Un invito a respingere, in altre parole, le concessioni di un potere che si dichiara paritario pur mantenendosi sostanzialmente conservativo – come sostiene il più celebre Sputiamo su Hegel – e a considerare la rivoluzione non un punto d’approdo, ma una condizione necessaria e al tempo stesso insufficiente al raggiungimento di quell’esperienza di liberazione delle donne di cui questi scritti costituiscono una «premessa» e una «profezia» (p. 11). È una lotta instancabile, quella di Lonzi, frutto di un vigore propulsivo che investe il contenuto tanto quanto la forma, capace di tradurre la furia destruens del ragionamento in un’argomentazione serrata, lucida, appassionata e maldisposta al compromesso. Una scrittura che, proprio per la sua natura militante, avrebbe probabilmente tratto giovamento da un apparato critico in grado di contestualizzarla e precisarne i tratti più severi – non per stemperarne la forza, ma per comprenderne fino in fondo la radice. Perché se è vero che gli scritti di Lonzi sono dotati di una «intensa, parlante presenza» (p. 2), è altresì vero che traggono spunto e significato da un preciso momento storico di cui i lettori del ventunesimo secolo, soprattutto quelli al di fuori della cerchia accademica, non conoscono necessariamente le coordinate; tanto più che, come notava giustamente Daniela Brogi nel suo puntualissimo pamphlet Lo spazio delle donne, vittime delladamnatio memoriae che ha reso il femminismo una sorta di rimosso culturale non sono stati solo i manifesti, ma anche la storia che a essi faceva da sfondo. Recuperare quella storia, in tale prospettiva, sarebbe servito non a deviare l’attenzione dall’«autonoma e vibrante vita del testo», ma a restituirle complessità e stratificazione culturale; a individuare le origini della lotta e chiarirne gli sviluppi, le contraddizioni, le zone che oggi appaiono più ombrose ed esclusive. Per restituire, dopo anni di silenzio coatto, tutte le sfumature di un pensiero che procede avanguardisticamente verso il futuro pur mantenendosi ancorato all’immediatezza del presente – eredità, questa, tra le più importanti lasciate da Lonzi: «non esiste la meta, esiste il presente […] noi realizziamo il presente» (p. 61).
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