Gloria Scarfone presenta il tema del numero 88: Rappresentare il desiderio lesbico. Un’indagine sulla narrativa italiana (1930-1967)
a cura di Cristina Savettieri
La copertina di questo fascicolo di «allegoria» riproduce una fotografia di Armen Susan Ordjanian intitolata Self-Portrait e pubblicata nel 1981 sulla rivista femminista «The Blatant Image: A Magazine of Feminist Photography». Si tratta di una potente riflessione visuale sulla soggettività femminile, sul corpo in quanto corpo sessuato, sul pensarsi e “vedersi” come donne a partire dalla relazione con il proprio sé incarnato e situato. Come suggerito da Daniela Brogi,1 questa immagine è, probabilmente, all’origine di una straordinaria invenzione narrativa e visiva che Céline Sciamma costruisce in uno dei film più belli e importanti degli ultimi anni, Portrait de la jeune fille en feu (2019), un apologo filosofico sull’intreccio tra desiderio, potere e creazione, sorprendente anche perché tutto disegnato sull’incontro di due soggettività – due corpi – femminili. Ambientato su un promontorio remoto della Bretagna alla fine del Settecento, il film mette in scena la relazione tra una pittrice e la sua modella, una donna nobile che deve farsi ritrarre, a sua insaputa, affinché la sua immagine faccia da garanzia a un fidanzamento forzoso a distanza. Il rapporto di dominio che, secondo un topos secolare, lega l’artista alla propria Musa salta del tutto perché la grammatica del potere maschile creativo esercitato sul corpo femminile passivo non ha alcuna corrispondenza possibile con l’assetto relazionale cui Sciamma dà forma:2 siamo qui in presenza di due soggettività che nella somiglianza – psichica, ma soprattutto sessuale e di genere – riscrivono non solo le regole del ritrarre, non più fondato sull’asimmetria tra chi guarda e chi è guardato, ma anche quelle dell’amare, estraneo alle sproporzioni politiche, emotive e morali tra chi possiede e chi è posseduta, e dunque felicemente abbandonato a una piena, comune, liberatoria impotenza, cioè a una rinuncia radicale a ogni dinamica di potere e controllo. In una scena chiave del film, quando ormai le due sono già unite in una numinosa passione amorosa, Marianne, la pittrice, ritrae Heloïse seminuda: schizzato a matita e su carta, e non dipinto ad olio su una tela di grande formato, il disegno presenta un vero e proprio contro-ritratto rispetto a quello da realizzare per lo sposo ignoto – qui il corpo scoperto e sdraiato si sostituisce a quello vestito e irrigidito in una posa frontale socialmente connotata. Ma Marianne sta in realtà ritraendo sé stessa per lasciare all’amata una sua immagine, e per farlo appoggia uno specchietto sul sesso di Heloïse (questa la citazione della foto di Ordjanian), in modo da poter riprodurre i lineamenti del proprio volto. È in questa dinamica di scambio che il sodalizio amoroso e quello artistico si fondono e si rifondano sulla dissoluzione delle funzioni e dei ruoli prestabiliti – amante/amata, creatore/creatura, attivo/passivo, maschile/femminile: la modella è parte integrante del processo creativo e il volto della pittrice riflesso nello specchio che copre il sesso dell’altra è lo strumento di una conoscenza di sé (un guardarsi e percepirsi nel mondo) che solo nella relazione con l’altra, nel corpo sessuato dell’altra, può compiersi. Il desiderio lesbico innerva così il portato politico del film, per cui le emozioni di Marianne ed Heloïse, fino all’esplosione finale accompagnata dalle note dell’Estate di Vivaldi, parlano di una messa in questione radicale delle strutture del dominio maschile.
È all’interno di questa cornice del discorso che questo fascicolo di «allegoria» indaga le rappresentazioni del desiderio lesbico nella narrativa italiana dagli anni Trenta alla fine degli anni Sessanta del Novecento. Prendendo le mosse dal lavoro seminale di Charlotte Ross,3 che esplora le declinazioni del desiderio lesbico nell’intreccio tra cultura popolare, scienza medica e letteratura in Italia fino alla soglia degli anni Trenta, i saggi contenuti in questa sezione tematica si muovono tra il Ventennio fascista e il momento immediatamente precedente la rivoluzione femminista degli anni Settanta, entro un arco temporale delimitato a un estremo dalla pubblicazione di Natalia (1930) di Fausta Cialente e all’altro dall’apparizione di Lettera aperta di Goliarda Sapienza e La figlia prodiga di Alice Ceresa, entrambi usciti nel 1967. Tanto la censura del regime fascista quanto la soffocante pressione sociale esercitata dal modello di rispettabilità borghese nei primi decenni di storia repubblicana costituiscono uno sfondo repressivo da osservare come un continuum che, in quanto tale, merita di essere esplorato come terreno su cui reagiscono scrittrici e scrittori.
Le ragioni per cui ha senso occuparsi oggi delle tracce che l’esperienza lesbica ha lasciato nell’immaginario e nella cultura letteraria del secolo scorso sono molteplici. Anzitutto, c’è un vuoto di conoscenza storica4 che riguarda le condizioni di vita, le emozioni, la sessualità delle donne lesbiche, spinte ai margini o addirittura escluse da uno spazio già subalterno come quello delle donne, rese invisibili non solo dal discorso maschile dominante – dove ritornano tuttalpiù in forma di fantasia sessuale ad uso e consumo del piacere maschile – ma anche messe in stato di minorità nell’elaborazione teorica dei femminismi storici.5 La ricostruzione della presenza del tema lesbico nella narrativa del secolo scorso vuole essere, in primo luogo, un contributo a una storia ancora largamente da scrivere e dunque a una storiografia che deve fare i conti con un problema epistemologico cruciale: come si racconta una storia di sommersione e occultamento? Come rendere parlanti i silenzi e le lacune e, in particolare, quel fondamentale dispositivo di oppressione e sopravvivenza che è il closet in cui le lesbiche, anche quelle dichiarate, vivono?6 La letteratura si rivela, da questo punto di vista, un oggetto di straordinario interesse per una storiografia che non solo lavora su un vuoto di documenti ufficiali, ma che deve anche maneggiare un materiale opaco, frutto di una difficile negoziazione «tra oppressione ed espressione di sé»:7 per il suo carattere ambivalente, la sua capacità di dar forma ed esprimere quello che nel discorso sociale non ha voce, la letteratura costituisce un ausilio essenziale a questo lavoro di ricostruzione al centro del quale sta un oggetto di difficile definizione, perché incorpora la propria negazione ma, al tempo stesso, anche la spinta a ricodificarsi in maniera cifrata o a rivelarsi.
Non solo per la storica ma anche per la studiosa di letteratura i problemi di metodo diventano spinosi quando si tratta di delimitare il campo: come affrontare lo studio del desiderio lesbico in letteratura? L’approccio tematico può restituire una prima mappatura, opportunamente ancorata a una delimitazione cronologica e dunque a uno sfondo storico, fatto di consuetudini sociali, strutture legislative, discorsi scientifici che insieme ci restituiscono il senso di cosa è norma e cosa non lo è in un determinato momento. Ma è l’oggetto in sé a non lasciarsi definire facilmente se lo pensiamo come tema letterario: consideriamo desiderio lesbico una relazione affettiva e sessuale tra due donne rappresentata in una narrazione o espressa in forma lirica? Quando non c’è relazione rappresentata non c’è desiderio? Cosa contraddistingue la soggettività portatrice di quel desiderio? In sostanza, cosa di preciso va mappato nell’affrontare una ricognizione di questo tipo? È proprio l’epistemologia del closet, strumento di isolamento e alienazione e però anche di liberazione interiore e reinvenzione creativa della propria identità, a chiedere di esercitare un’ermeneutica attenta alle forme del contenuto, alle strategie di denegazione e reticenza, alle slabbrature dell’intreccio, agli addensamenti metaforici, al non detto o all’alluso del testo. I saggi del fascicolo lavorano prevalentemente attorno a casi in cui l’identificazione del tema è evidente – la passione tra Silvia e Natalia messa in scena da Cialente (Porciani e Scarfone), l’iniziazione sessuale di Jules/Giulio con la governante Lia (Scarfone), l’amore preadolescenziale con Nica raccontato dalla voce autobiografica di Lettera aperta (Bazzoni), l’apprendistato da “invertita” di Stephen, protagonista di The Well of Loneliness (1928) di Radclyffe Hall (Rossi ne studia la traduzione e la ricezione italiane) – ma osservando il tema attraverso le strategie di formalizzazione che le autrici allestiscono o ragionando sulle dinamiche di circolazione culturale del testo e gli orizzonti di attesa del pubblico dell’epoca. La figlia prodiga di Alice Ceresa (Bazzoni) complica e arricchisce il quadro: qui il desiderio lesbico non è mai nominato e la vocazione radicalmente sperimentale del testo, astratto, privo di intreccio e personaggi individuati, abraso dalla dizione saggistica, impedisce di delucidare inequivocabilmente la condizione di prodigalità come un sostituto cifrato del lesbismo. Eppure, sappiamo che Alice Ceresa era lesbica, e ignorare questa informazione sostanziale nell’interpretare il libro, come spiega bene Bazzoni, sarebbe un errore.
Al di là del merito specifico di questo caso, si tratta di una questione di primaria importanza: non è possibile occuparsi delle forme che il tema del desiderio lesbico assume in un testo prescindendo dalla persona autoriale che lo scrive. Non si tratta di praticare un banale biografismo, per quanto sarebbe bene liberarsi definitivamente dei cascami dell’allergia strutturalista a qualunque incarnazione della persona autoriale nel testo: piuttosto occorre interrogarsi sulla posizione di chi scrive, sulle condizioni della sua presa di parola (anche di quella finzionale) e sul costo sociale delle sue invenzioni. Natalia subì la censura del regime fascista anzitutto per motivi politici, ma nel 1930 il racconto dell’incontro fisico tra Silvia e Natalia, gioioso, oscuro e travolgente, non poteva non suscitare scandalo e motivare il ritiro del romanzo dal mercato. La presenza di trame lesbiche nella narrativa degli scrittori del secondo dopoguerra, da Pavese a Pratolini a Gadda,8 ha motivazioni, formalizzazioni ed esiti differenti rispetto a quelli delle scrittrici che, negli stessi decenni, lavorano sul tema immaginando, attraverso il lesbismo, modi di resistenza al dominio maschile. Mentre nel Pasticciaccio di Gadda il caso di Liliana Balducci va letto nel contesto di un più ampio discorso di critica alla biopolitica del regime fascista condotto attraverso l’esplorazione di sessualità non conformi, Pavese e Pratolini sembrano piuttosto usare opportunisticamente i personaggi lesbici come proiezioni di un maschile minacciato e indebolito o come emblema della degenerazione borghese. Se accostiamo a questi ultimi due esempi quelli della Natalia di Cialente, della protagonista di Storia di Anna Drei (1947) di Milena Milani, dell’Alessandra di Dalla parte di lei (1949) di Alba de Céspedes, ci troviamo invece davanti a soggettività femminili complesse che, con gradi diversi di reticenza o rimozione, nel corpo sessuato di un’altra si cercano, anche se solo per una fase della vita. Da dominate all’interno del campo letterario, le scrittrici sembrano sondare, col lesbismo, non solo l’estremo della marginalità (e dell’oppressione) ma anche una forma di sospensione dell’ordine simbolico e del potere maschile, un sottrarsi, seppure temporaneo e quasi sempre fallimentare, all’imperativo di una sessualità sempre (potenzialmente) riproduttiva. È in questa chiave che funziona anche l’iniziazione sessuale lesbica di un personaggio non lesbico come Jules/Giulio nella Ragazza di nome Giulio di Milani: come rifiuto del dogma della penetrazione che culmina, non senza una certa ambiguità ideologica, nella castrazione finale ai danni di uno sconosciuto.
I casi di Ceresa e Sapienza, però, impongono di non limitare a considerazioni di carattere esclusivamente sociologico e simbolico l’interpretazione della presenza del desiderio lesbico nei loro testi. Già definirla semplicemente una “presenza” è un errore di prospettiva, perché il desiderio lesbico è la scatola nera delle loro opere, ciò che muove la forma a decostruirsi – ad astrarsi e cifrarsi nel caso di Ceresa – e che determina una rispondenza profonda tra l’eccentricità del soggetto che parla o di cui si parla e la testualità eccentrica che ne deriva.9 Questo sabotaggio necessario della “normalità” narrativa emana dalla difficoltà di dire un desiderio che è quasi del tutto privo di topoi o tradizioni alle spalle e che, almeno al momento in cui le due scrittrici operano, risulta violentemente compresso dalla censura morale, patologizzato dal discorso scientifico, reso invisibile nello spazio sociale per effetto dell’«eterosessualità obbligatoria».10 È un sabotaggio produttivo che non possiamo non ricondurre a un’urgenza psichica ed esistenziale che origina anche nell’orientamento sessuale delle due scrittrici. Se non ha senso ipostatizzare la scrittura delle lesbiche o sulle lesbiche in una essenza – così come non ha senso irrigidire in una identità omogenea il loro vissuto e la loro soggettività – è altrettanto insensato non considerare quanto la loro posizione nel mondo, sessualmente fondata e nutrita dall’esperienza dell’isolamento, dell’eccezione e dell’estraneità, possa diventare una risorsa creativa e persino politica.
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