Nelle Benevole ci sono molte pagine di troppo; la dialettica fra i piani di cui l’opera si compone (il realismo documentario, l’allegoria, la narrazione onirico-visionaria) non sempre si risolve bene. Certi snodi narrativi, soprattutto nel finale, sono bizzarri o frettolosi; episodi come la storia di Clemens e Weser, o la scena in cui Maximilien Aue morde il naso di Hitler, paiono fuori registro o fuori luogo. Secondo alcuni storici del nazismo, le parti documentarie del romanzo somigliano talvolta a un quaderno di appunti o a una scheda di lettura. Si tratta di un libro eccessivo e imperfetto. Eppure, nonostante le cadute, o forse proprio a causa di questa dépense creativa e priva di misura, l’opera di Littell è il romanzo più importante uscito in Europa nei primi anni del XXI secolo. Lo è per il tema che affronta e per la maniera in cui lo affronta: perché narra, in modo nuovo e illuminante, il trauma centrale della storia novecentesca; e perché lo fa usando, in modo nuovo e illuminante, i mezzi conoscitivi del romanzo. Le recensioni si sono concentrate sui temi manifesti (l’autobiografia di un nazista, lo sterminio degli ebrei d’Europa); io vorrei riflettere sull’immagine del mondo che il romanzo comunica partendo dai contenuti latenti, quelli sedimentati nella forma.
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