Sono due gli echi che risuonano nell’incipit delle Benevole di Jonathan Littell: quello della Ballade des pendus di François Villon e quello di un altro ben noto attacco, Au Lecteur, che apre con un diabolico patto tra lettore e autore Les Fleurs du Mal. Se il vocativo «Fratelli umani» della Ballata chiede pietà per i morti (ma Aue, voce narrante, non lo è ancora), il richiamo a Baudelaire impone il riconoscimento della somiglianza tra chi racconta e chi legge, necessario per addentrarsi in un viaggio che destruttura la comune fenomenologia del male. Allora, più che un patto, quella tra Maximilien Aue e il suo lettore diventa una morsa ferale, nella quale “umano” è un aggettivo che smette di essere sinonimo di «generoso, comprensivo, caritatevole, benefico, pietoso» (Sinonimi e contrari, Zanichelli), e diventa un campo conflittuale di possibilità, assai simile al senso ambiguo e inafferrabile dell’aggettivo deinós, che nel primo
stasimo dell’Antigone di Sofocle designa l’uomo come la più spaventosa delle creature.
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