[ a cura di F. Fiorentino, fotografie di A. Gómez de Tuddo, L’orma, Roma 2017 ]
Heiner Müller (1929-1995), massimo drammaturgo e poeta tedesco dopo Brecht (i suoi Werke sono pubblicati da Suhrkamp in 13 volumi, 1998-2011), è uno dei pochi scrittori del secondo novecento che meriterebbero un «Meridiano», e invece la sua opera è pressoché assente dal nostro repertorio. Dopo la fine della benemerita Ubulibri di Franco Quadri, che aveva portato in Italia un’ampia selezione del Teatro (4 voll., 1982-1991), le straordinarie interviste di Tutti gli errori (1994) e l’eccellente antologia delle poesie scritte dopo l’89, curata da Peter Kammerer col titolo L’invenzione del silenzio (1996) – titoli oggi tutti irreperibili –, i libri apparsi negli ultimi vent’anni si contano sulle dita di una mano e, se si eccettua La rovina dell’egoista Johann Fatzer pubblicato da Einaudi nel 2007, si devono all’iniziativa di piccole, coraggiose case editrici: Libri Scheiwiller, che nel 2007 pubblica l’antologia poetica Non scriverai più a mano, tradotta da Anna Maria Carpi; Zandonai, che nel 2010 propone l’autobiografia Guerra senza battaglia; e ora L’orma, che torna finalmente al teatro con un potente testo del 1984 mai prima tradotto: Anatomia Tito Fall of Rome.
Il dramma si presenta in forma di «commento» a una delle tragedie più pulp di Shakespeare, il Titus Andonicus, il cui eroe eponimo, integerrimo generale romano trionfatore sui Goti, vede la sua famiglia straziata dalla vendetta della regina sconfitta, Tamora, alla quale ha spietatamente ucciso un figlio. Un’escalation di crudeltà senza eguali nel teatro elisabettiano, parossistica fino al ridicolo: i ben 14 assassinii, di cui nove rappresentati in scena, sono conditi da sei mutilazioni, una sepoltura da vivo, uno stupro e un caso di cannibalismo. Il tutto culmina infatti nella scena – ricalcata sulla storia di Filomela che Ovidio racconta nelle Metamorfosi – in cui la figlia di Tito, Lavinia, viene prima sverginata, poi mutilata della lingua e delle mani dai figli di Tamora, Chirone e Demetrio; i quali a loro volta vengono uccisi da Tito, che – novello Tieste, qui probabilmente attraverso la mediazione di Seneca – li imbandisce in pasto alla madre.
Questo trionfo dell’anatomia, che già in Shakespeare è pretesto per un dramma sul degrado della civiltà politica di una nazione, viene a sua volta anatomizzato da Müller, che lo traduce, taglia e ricuce, inscrivendo il Fall of Rome nell’odierna dialettica di un occidente imperialista che, schiacciando ciecamente il sud del mondo, ne provoca l’altrettanto cieca rivalsa. Nel «commento» del coro, distinto dal caratteristico maiuscolo mülleriano, Roma è «LA PUTTANA DELLE MULTINAZIONALI» che dopo la vittoria di Tito «ATTENDE IL BOTTINO SCHIAVI PER / IL MERCATO DEL LAVORO PER I BORDELLI CARNE FRESCA», mentre i Goti «CHE PREMONO DALLA FORESTA / E DALLA STEPPA VERSO IL TROGOLO DELLE CITTÀ» sono i dominati, i perdenti della storia: «Il Goto è un negro è un ebreo». La sanguinosa vendetta di Tamora, orchestrata dal suo amante «negro», il Calibano ante litteram Aronne, non può non far pensare, oggi, all’11 settembre o al Bataclan, ma l’efferatezza di Tito richiama al contempo le guerre neocoloniali in Africa, Medio oriente, America latina. Come già nella Missione (1979) e in Riva abbandonata (1982), Müller scandaglia senza sconti la cattiva coscienza dell’Occidente, fino a prefigurarne la «caduta»: «I GOTI INCHIODANO LA CAPITALE DEL MONDO / CON UNA TEMPESTA DI FRECCE ALLA CROCE DEL SUD / APPLAUDITI SILENZIOSAMENTE DALLE FOSSE COMUNI».
Per scongiurare questo finale, scrive Müller nello splendido discorso Shakespeare una differenza (1988) riportato in appendice, occorre interrompere «l’eterno ritorno dell’identico», la mortifera serie di variazioni shakespeariane che la storia mette in scena, e introdurre «una differenza». Se Amleto non c’è riuscito, Prospero «almeno spezza la sua bacchetta, replica all’accusa attuale di Calibano, il nuovo lettore di Shakespeare, a tutta la cultura precedente: YOU TAUGHT ME LANGUAGE AND MY PROFIT ON’T / IS I KNOW HOW TO CURSE».
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