[ il Mulino, Bologna 2017 ]
Il titolo gioca sull’ambiguità dell’esclamazione: non mancano pizzerie che si chiamano proprio Che pizza!, viene detto subito nella Premessa, e, possiamo aggiungere, c’è qualche libro di cucina omonimo. Invece questo di Paolo D’Achille è il terzo volume di una bella serie del Mulino, «Parole nostre», iniziata nel 2016 con Parola di Luca Serianni e Bravo! di Giuseppe Patota, e proseguita nel 2018 con Ciao! di Nicola De Blasi. È dunque un saggio sulla parola pizza, divulgativo nell’accezione migliore e più nobile.
Ripercorrendo le vicende di un vocabolo si ha ovviamente a che fare con quanto è a esso collegato e infatti il primo capitolo riguarda La pizza in cucina tra focacce, torte e schiacciate, termini riferiti, in modi diversi nel tempo e nello spazio, a preparazioni alimentari varie, salate o dolci. D’Achille affronta quindi la controversa etimologia di pizza e riprende la soluzione proposta da Francesco Sabatini: la voce pi(t)ta, forse d’origine greca, certo diffusa nell’area del Mediterraneo nel senso appunto di focaccia, può essersi trasformata in pizza, con passaggio da t a z, nell’Italia longobarda del centro-sud. In effetti, la storia registra un susseguirsi di forme simili in documenti di area centromeridionale, da pititie (dove titi starebbe per una doppia zeta), variante attestata a Napoli nel 966, al moderno pizze, nel menu del banchetto del 1517 a Castel Capuano per le nozze di Bona Sforza d’Aragona con Sigismondo I di Polonia e poi nei ricettari di Messi Sbugo (Ferrara, 1549) e di Bartolomeo Scappi (Venezia, 1570). Ma è nell’Ottocento, ancora a Napoli, che nasce la tipica pizza, perciò definita altrove napoletana, descritta come «une espèce de pain […] de forme plate et ronde» dall’archeologo francese Aubin-Louis Millin in un manoscritto del 1811 (citato a p. 49) e rappresentata, tra gli altri, da Matilde Serao nel Ventre di Napoli (1884). Se Domenico Rea osserva con sguardo ammirato la metamorfosi dell’impasto da «disforme polpetta» a cerchio simile al golfo di Napoli, con un bordo-costiera, e paragona il lavoro del pizzaiolo, semplice solo in apparenza, a quello di chi addomestica «una creatura selvaggia» (in Ninfa plebea, 1992), Vitaliano Brancati, in un articolo del 1947, vede in una pizza napoletana indigesta, temibile «intruglio di pomodoro e olio fritto», addirittura la causa della morte dell’anziano Giovanni Verga.
Nel saggio, sono rammentati anche nomi di pizze, inclusa la famosa margherita, e nomi di pizzerie, in Italia e all’estero, perché «se uno gira il mondo, in tutti i cantoni trova un napoletano che fa la pizza» («e un biellese che fa i muri», come scriveva Primo Levi in un passo della Chiave a stella del 1978, citato a p. 100). D’Achille ricorda inoltre la famiglia lessicale, da pizzelle (per esempio nel Cunto di Basile) a pizzaiola (per antonomasia, la Loren, nonché la mozzarella Locatelli), e gli usi figurati di pizza, per designare qualcosa di schiacciato e in particolare la scatola della pellicola cinematografica, oppure qualcosa o qualcuno di noioso e, in romano, pure una sberla.
Oggi parecchi in ambito umanistico tentano di scimmiottare le scienze dure attraverso una grande ostentazione di obiettivi, criteri, schemi e pseudotecnicismi, al punto che, nei casi peggiori, sembra di trovarsi davanti a una gabbia vuota. La buona tradizione della storia della lingua italiana per fortuna non cade in un simile tranello, come ben prova la serie «Parole nostre» del Mulino. Questo piccolo libro infatti è denso, documentato, pieno di sostanza e al tempo stesso piacevole, perciò si legge volentieri e può essere utile non solo per gli appassionati o per gli studenti della materia, ma per chiunque sia semplicemente curioso di storie e di parole. Paolo D’Achille, nel ricostruire e raccontare alcuni percorsi della parola pizza, si rifà a dizionari e studi linguistici ed esplora moltissimi testi, fiabe, romanzi, film e canzoni, antiche fonti e siti internet, mostrando, in modo chiaro e concreto, un mondo di cose.
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