[ a cura di S. Dal Bianco, A. Riccardi e G.M. Villalta, Garzanti, Milano 2017 ]
La pubblicazione di Tutte le poesie, particolarmente attesa per la difficile se non impossibile reperibilità dei libri di Mario Benedetti, offre ai lettori un’esaustiva panoramica sull’arco ormai più che trentennale di una produzione poetica tra le più autorevoli della contemporaneità. Introdotta da tre interventi saggistici tutti a loro modo fondamentali, firmati dai curatori, l’opera riunisce le principali raccolte del poeta friulano, Umana gloria (2004), Pitture nere su carta (2008) e Tersa morte (2013), alle quali si aggiunge un gruppo di testi del 2015, nucleo di un futuro libro dal titolo Questo inizio di noi.
Se la lettura sinottica permetterà di valutare meglio gli importanti scarti intervenuti tra libro e libro, l’impressione più forte, comunque, è che, dagli anni ’80 (a cui risalgono le prime poesie di Umana gloria) fino a oggi, a risaltare siano soprattutto le grandi linee di continuità, riscontrabili in un ampio fascio di costanti. Costanti tematiche, certo: il Friuli (con gli accavallamenti topografici di altri luoghi biografici e non), il mondo familiare dell’infanzia, il tempo o per meglio dire i differenti tempi sovrapposti, le possibilità della parola nello scontro con i limiti estremi dell’ammutolimento e della morte, quest’ultima ovviamente centrale nella raccolta del 2013 ma presente fin dall’inizio, quale minaccia di fine e di dispersione di un individuo come di tutto un mondo. Ma forse ancora di più resta impresso il modo coerente in cui questo universo poetico si dispiega. Non viene mai meno, per esempio, quell’impressionismo a-gerarchico per cui immagini appartenenti a spazi, tempi e piani percettivi e di realtà diversi si affastellano sulla pagina, rispondendo quasi senza mediazione alla visione iper-ricettiva e carica di memoria di un soggetto che non ha paura di disperdersi negli enti che ha evocato. E a proposito di dispersione ottica, è facile riconoscere un fil rouge che porta – va poi verificato quanto direttamente – da versi come «Parte dei miei occhi è sotto la tua giacca, / parte nelle farfalle in cui si sfa il mobiletto» o «Io che sono delle cose negli occhi, / ma non so dire come sono quando le guardo» (entrambe in Umana gloria), fino a «Si diventa altri occhi per morire dovunque», in Tersa morte. Un’altra spia ricorrente dell’instabilità ontologica e percettiva del mondo benedettiano, che spicca dalla lettura d’insieme, è nell’alta frequenza dei verbi legati al “venire” (quanti gli incipit che ne sono marcati), a un “restare” sempre precario (talvolta un “ritornare”, si veda la poesia conclusiva di Umana gloria) e quindi al “diventare” e più spesso allo “sparire”, a un “andarsene” che non a caso chiude l’ultima poesia raccolta nel volume garzantiano («Solo offuscati… e piano piano andarcene»). E tuttavia, se la regressione resta una categoria fondamentale di questa scrittura, più si va avanti nel tempo più sembra crescere la forza insieme assertiva e riflessiva di certe formulazioni, quasi definizioni o sentenze dove i contorni da labili si fanno d’improvviso netti e persino taglienti («Chi vive dice nella vita tante cose / che restano nella vita che muore», «E ogni vita / era questo: interezze create continuamente / per un dopo che non ci sarà più o è già stato», «Sono questo, questa mortalità / che mi assedia»), e questo in concomitanza con una postura più direttamente volta al coinvolgimento del lettore («E io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni», «Non distrarti, non eludere / la pura inconcepibile assenza, non distrarti»). Una perentorietà sembra farsi più necessaria via via che ci si avvicina al limite assolutamente ineludibile, al bianco e nero del nudo scontro vita-morte.
Questi e altri aspetti sono già stati diversamente indagati dalla critica; nonostante ciò la storia della poesia di Benedetti è ancora da fare, e questo volume offrirà senz’altro uno stimolo, si spera decisivo, per sviluppare il discorso.
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