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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 90

luglio/dicembre 2024

Salvatore Spampinato – Anna Seghers, I morti dell’isola di Djal e altre leggende

[L’orma editore, Roma 2022]

Proprio come gli spettri di un suo racconto, anche Anna Seghers non ce la fa a starsene tranquilla e torna a turbare la nostra mente con visioni e sogni che qualcuno sperava sepolti per sempre. Dopo il grande romanzo-odissea Transito, L’Orma pubblica I morti dell’isola di Djal e altre leggende, che raccoglie nove racconti finora inediti in italiano. Ordinati cronologicamente e raggruppati in due sezioni – Leggende (con evidenti tratti fantastici) e Storie (dal carattere realistico, ma non meno perturbanti) – i racconti appaiono in una traduzione efficace, che ha meritato a Daria Biagi il premio Appiani 2024, e accompagnati da note che rimandano alla prima pubblicazione di ogni testo. È assente un’introduzione, che sarebbe stata invece utile a noi lettori post-1989 per riconsiderare la grande scrittrice della Ddr.

La Seghers che L’Orma ci presenta non è infatti la nota pasionaria comunista, a lungo presidente dell’Unione degli scrittori della Germania Est, ma la scrittrice che tentò di coniugare il realismo socialista con il fantastico, la fame della Repubblica di Weimar con l’inquietudine mostruosa di Hoffmann e Kafka. È la romanziera che, in un carteggio che sarebbe da ripubblicare, contrapponeva a Lukács un concetto di realismo capace di conciliare la concretezza vivida della realtà nei suoi dettagli più crudi con sperimentazioni formali utili a rappresentare le deformazioni espressionistiche che abitano la nostra psiche: «Un vero bosco fa parte della realtà; ma anche il sogno di un bosco», scriveva nel racconto Incontro a Praga. Questi racconti però sono da leggere anche in un orizzonte extraeuropeo e ci invitano a ricollocare la scrittrice-profuga che ripara in Messico e legge Juan Rulfo, amica di Jorge Amado e Pablo Neruda, in un contesto di Weltliteratur che la connetta a Borges e Cortázar, e indaghi i legami ancora poco studiati eppure evidenti con la letteratura fantastica latinoamericana e mondiale del Novecento. Con questo filone transnazionale Seghers ha in comune lo sforzo di chiarire l’inconoscibile assurdità del reale, ma senza rinunciare a comprendere, seppur trasfigurati, i bisogni materiali degli esseri umani, nelle loro lotte storiche e sociali e nelle loro terribili ansie esistenziali. Sullo sfondo di queste variegate storie è sempre presente un orizzonte post-metafisico in cui la morte incomprensibile si staglia in agguato con i suoi allarmanti presagi, sapientemente bilanciata da una brulicante vitalità cinica e animale che sembra dare una speranza anche rappresentando la disperazione. Seghers incrina la sensibilità indurita di un’epoca, la nostra, che ha rimosso il negativo, così come accade a Woynok, il gretto brigante che ascoltando attorno al fuoco una canzone si sente profondamente scosso, perché «mai aveva conosciuto dolori che non si potessero strappare o bruciar via dalla carne» (p. 25).

La scrittura di Seghers seduce con una stratificazione mitologica mista a una profonda caratterizzazione dei personaggi, con incipit che sono promesse mai infrante, e colpi di scena e finali perfetti come bombe a orologeria. La sua voce narrante, riconoscibile ma sempre nascosta, collettiva e omerica, rifugge il narcisismo dello scrittore a favore della comprensione della realtà storica e umana di cui si mette a servizio: così nei suoi briganti fiabeschi c’è molto dei profughi a lei e a noi contemporanei, nei cacciatori che cercano Artemide c’è il nostro orizzonte di senso vacillante, e nella inquietante guida africana che conduce verso l’ignoto i conquistatori colonialisti assetati di nuove risorse – mentre un moderno aedo avverte «Se non c’è più futuro, il passato è esistito invano» (p. 199) – non possiamo che riconoscere un destino che ci riguarda. Questo è poi forse quello che chiediamo alla letteratura dall’Odissea in poi, ma con una differenza essenziale. Seghers resta fedele al monito marxiano della sua Piccola relazione dalla mia officina: «Il nostro scopo non è solamente descrivere il mondo; noi vogliamo descriverlo in modo da poterlo cambiare». Non potevamo aspettarci uno spettro più minaccioso.

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