[ Laterza, Roma-Bari 2022 ]
Un pamphlet necessario, questo di Enzo Traverso per la collana «Tempi nuovi» di Laterza, perché coglie, anche nel lavoro dello storico, un aspetto decisivo del nostro tempo e di quella “cultura del narcisismo” che Cristopher Lasch aveva iniziato a descrivere già negli anni Settanta. Traverso, studioso dell’età moderna e contemporanea alla Cornell University, nota infatti come sia sempre più accentuata la tendenza di molti suoi colleghi a raccontare il passato non più con l’impersonalità e il distacco oggettivo che, dalla fine del Settecento in poi, erano diventate consustanziali al resoconto storiografico, ma adottando invece la prima persona singolare ed esibendo senza troppi pudori la soggettività dell’io scrivente.
Non si tratta tanto di constatare l’aumento esponenziale delle autobiografie scritte da storici, un tipo di scrittura consentito in passato solo a un’élite molto ristretta di grandi studiosi, da Gibbon e Croce fino a Hobsbawm, che invece, negli ultimi trent’anni, viene praticato sempre più di frequente anche da una pluralità di studiosi di media caratura: anche nei casi meno interessanti, infatti, questo nuovo fenomeno (anche editoriale, si capisce) ha comunque il merito di rendere visibili e trasparenti le traiettorie personali e accademiche, altrimenti invisibili, che stanno all’origine di un metodo. È soprattutto un’altra la “tirannide dell’io” sulla quale si appuntano le critiche di questo originale pamphlet: l’emersione, all’interno del racconto storiografico in senso proprio, di un “ego” intorno al quale il racconto del passato si struttura e trova le proprie motivazioni; l’adozione sistematica e spesso ridondante di una prima persona con un volto e un nome, capace di emozionarsi di fronte al ritrovamento inatteso di una fonte d’archivio o di commuoversi nel ripercorrere, oggi, gli itinerari di montagna delle sanguinose guerre di ieri. Ivan Jablonka in Francia e Sergio Luzzatto in Italia, dei quali Traverso mostra le strategie retoriche in libri come Laëtitia. Ou la fin des hommes (2016) o Partigia (2013), sono tra coloro che oggi rifiutano lo stile impersonale e la distanza euristica in favore di uno sguardo, soggettivo e interessato, su un passato che viene vissuto come presente, con tutti i rischi che possono derivare da questo esasperato «presentismo» (pp. 143-167).
Il che, intendiamoci, non è sempre un male, se può dissipare il falso mito dell’oggettività della ricostruzione storica; ma lo diventa quando «la sequenza degli “io” […] finisce per stordire» il lettore, causando una «sovraesposizione dell’“io” dello storico» (pp. 86-88) che va a scapito della comprensione dei fatti e persino, paradossalmente, di quella qualità «letteraria» che lo stesso Jablonka ha recentemente teorizzato in un manifesto per le scienze sociali dal titolo L’histoire est une littérature contemporaine (2017). Ma proprio perché nessuno ha mai messo in dubbio la natura (anche) narrativa del racconto storico, sarebbe opportuno, secondo Traverso, porre un freno a certe derive narcisistiche, dopo averne compreso fino in fondo le motivazioni, come appunto egli fa nel libro. Del resto, ed è lui stesso a ricordarlo, la microstoria praticata negli anni Settanta da Giovanni Levi e Carlo Ginzburg non andava affatto nel senso del soggettivismo e della sovraesposizione di sé, ma piuttosto in direzione di un adeguamento delle retoriche narrative della storiografia a un’estetica (e a un’etica) minimale e democratica.
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