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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Martina Mengoni – Andreea Simionel, Male a est

[ Italo Svevo, Trieste-Roma 2022 ]

La protagonista-narratrice di Male a est porta lo stesso nome dell’autrice, ma non lo stesso cognome. All’inizio della storia, Andreea Paval è una ragazzina di dieci anni che frequenta le elementari in una città della Romania, dove vive con la madre e la sorella. Il padre lavora in Italia, a Torino; è il 2006.

Nella prima parte del libro, «Pesce», scorrono la vita a scuola, a casa e per strada; gli SMS e le telefonate al padre, le lotte con la sorella più grande, le sfuriate della madre, il nuovo cane e il viaggio in Siberia per comprarlo. E poi il rapporto con gli oggetti, che è forse la chiave del libro: i giochi, i mobili, i videogiochi, i vestiti rapiscono Andreea in incantamenti fantastici, spesso crudeli. Le Bratz che «sembrano morte in piedi», il colletto dell’uniforme scolastica che cade «come due petali bianchi. A forma di schifo. Di demonio»; gli scatoloni di prodotti che la madre vende in giro, i pacchi di cibo che il padre manda dall’Italia, il computer tanto bramato. Con gli oggetti la protagonista gioca e lotta, li distrugge e li ricostruisce sotto forma di parole e fantasticherie; sono spesso l’input che innesca uno scambio di gioco beffardo tra l’immaginazione e il linguaggio: «Ken si avvicina e bacia Bratz. Ma la testa di Bratz è troppo grossa, le sue labbra carnose gli risucchiano la faccia, gli divorano la bocca e gli occhi. Bratz mangia Ken. Ken muore».

Diceva Garboli che in Lessico famigliare c’è una compresenza di sguardo onnipotente e sguardo sprovveduto. In Male a est Andreea Paval ha quasi sempre uno sguardo ravvicinato e sprovveduto, non è quasi mai una finta bambina, una bambina preveggente, né una bambina-simbolo (i brani, sporadici, dove questo sembra accadere, sono i più deboli). C’è un realismo dell’infanzia; i pensieri e i monologhi interiori della protagonista non scaturiscono mai dal non-luogo di un’adultità neutra.

La posizione di Andreea Paval nei confronti del mondo la lega a una tradizione letteraria di bambini come quelli della Guerra dei bottoni di Pergaud e di St. Trinian di Searle. Il desiderio effimero delle cose, anche quando è soddisfatto, è momentaneo, ipnotizzante, e lascia aperto un vuoto di noia e malinconia. Simionel lo fa colmare dalla protagonista con una ritualità linguistica che però, pur nella paratassi che azzera le gerarchie tra fatti e immaginazione, non si trasforma mai in cantilena.

Questo accade fin quando – a metà del libro – tutta la famiglia si trasferisce a Torino: ed è qui che è ambientata la seconda parte, «Stivale». A Torino tutto cambia, e il passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza si blocca. Tanti oggetti devono restare in Romania, tanti altri diventano irraggiungibili. Ognuna delle tre donne del nucleo familiare (Andreea, la madre, la sorella) prende una strada diversa e divergente; la furia e lo struggimento nei confronti del marito lontano si trasformano, per la madre, nel risentimento per un marito vicino ma esausto; Andreea perde ogni contatto con la sorella, e il conflitto tra le due si trasforma in apatia. Torino è claustrofobica, perché la casa dove la famiglia trascorre tutta la giornata è piccola, con soffitti bassi. Ma è soprattutto una claustrofobia linguistica, visto che la ragazzina è costretta al silenzio non solo della parola ma anche del pensiero: non sa interpretare i segnali della città, delle persone, della scuola, delle cose.

Male a est è la storia di uno spaesamento, di un senso di casa perduta e non più ritrovata. Andreea Paval resta bloccata a metà tra due mondi e perde la capacità di dominare la realtà con l’immaginazione; se il suo sguardo, in Romania, trovava spalla nei suoi amici e coetanei, ora non è neppure in grado di comunicare con loro. Nel raccontare una storia così tipica, Simionel ne evita quasi sempre i pericoli: il folklorismo, le metafore trite e i simbolismi spicci. I rari passaggi di pura riflessione morale fanno emergere un conformismo molto sottotono rispetto al resto del racconto. Nell’insieme, comunque, l’autrice dimostra una forza espressiva notevole e mette insieme un libro diverso dalla maggior parte della narrativa italiana contemporanea.

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