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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Christopher Rundle, Il vizio dell’esterofilia. Editoria e traduzioni nell’Italia fascista

[ Carocci, Roma 2019 ]

Il vizio dell’esterofilia di Christopher Rundle – traduzione italiana aggiornata di Publishing Translations in Fascist Italy (Peter Lang 2010) è un libro importante per diverse ragioni. Basandosi su approfondite ricerche d’archivio e preziose analisi quantitative, Rundle ricostruisce il discorso sulle traduzioni nell’Italia fascista degli anni Trenta, mostrando l’intrecciarsi dei punti di vista e degli interessi dei diversi attori in campo. 

Più che la traduzione in sé stessa l’oggetto dello studio è la visione che del suo ruolo avevano i protagonisti della vita politico-culturale. Innanzitutto il regime, il cui assillo erano le statistiche internazionali che rivelavano come l’Italia fosse, negli anni Trenta, il paese che più traduceva al mondo. Tale primato era considerato dal fascismo un segno di debolezza: le traduzioni intese come strumento di espansione culturale dovevano presentare una «bilancia commerciale» positiva, ovvero il numero di traduzioni estere di libri italiani «esportati» doveva essere superiore a quello delle traduzioni italiane di libri stranieri «importati». Dalla seconda metà degli anni Trenta esercitò quindi un controllo sempre più capillare sulle traduzioni, le quali non solo «invadevano» ma «inquinavano» la cultura italiana, rendendo così necessarie attente «bonifiche». 

L’altro punto di vista è quello degli scrittori. Proprio loro, a partire dalla fine degli anni Venti, avevano sollevato il problema dell’«invasione» delle traduzioni, in particolare di quelle dei best sellers di lingua inglese, le cui tirature superavano di gran lunga quelle degli autori italiani: l’«esterofilia» preoccupava Marinetti perché sottraeva lettori agli scrittori italiani. Per il regime essa diventava un problema solo nella misura in cui era interpretabile come segno di «sottomissione» culturale, e anche la letteratura popolare non costituiva un problema in se stessa, ma per il rischio che diffondesse, attraverso la letteratura poliziesca, temi considerati socialmente destabilizzanti. 

Il terzo punto di vista è quello degli editori, per i quali le traduzioni costituivano una fonte irrinunciabile di reddito. Il libro mostra, con grande finezza, la loro continua negoziazione con il regime, il quale, mostratosi fino alla fine incline al compromesso (come dimostra il caso di Americana), era ben attento a non lederne gli interessi commerciali. Anzi, almeno fino alla seconda metà degli anni Trenta, il regime tendeva ad andare incontro agli editori più che agli scrittori: se questi protestavano contro l’industrializzazione dell’editoria italiana, le autorità fasciste non vedevano di cattivo occhio tale modernizzazione del mercato librario italiano, a cui proprio le traduzioni avevano contribuito.

L’altro motivo di grande interesse dell’indagine di Rundle riguarda la sua posizione all’interno dei translation studies. Per intendere il valore del libro nel suo complesso e la rilevanza dei problemi da esso posti occorre infatti tener presente l’importante riflessione teorica condotta dallo studioso, ormai da un decennio, sulle ragioni e sui metodi della storia della traduzione; sui suoi rapporti con la storia tout court e con altri approcci traduttologici; sull’utilità propriamente storiografica del punto di vista delle traduzioni. Nel caso del fascismo esso ha permesso di far luce su molteplici questioni storiche, fra cui la natura della censura fascista e del regime stesso; le trasformazioni dell’editoria italiana; il rapporto degli intellettuali con la cultura di massa e con il potere. Il vizio dell’esterofilia mostra così tutto il potenziale del proposito espresso da Rundle in un illuminante dialogo del 2016 con lo storico Vicente Rafael: usare la traduzione «as an interpretative lens through which to re-examine a historical object in new and interesting ways».

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