[ il Saggiatore, Milano 2019 ]
Il ponderoso volume di Jacopo Tomatis si apre con una doppia epigrafe che subito ci proietta nell’orizzonte culturale evocato dal titolo. Mentre il passo di Apocalittici e integrati stabilisce una nobile genealogia con un critico del popular lungimirante come Eco, i versi dell’Italiano di Cutugno costituiscono, non senza ironia, un’efficace mise en abyme di quanto andremo a leggere, preannunciando la speciale attenzione prestata dall’autore al nesso fra canzone italiana e identità nazionale.
Il lavoro prende le mosse da quella sorta di melodrammatico racconto di fondazione che l’Italia repubblicana si è costruita attraverso l’«invenzione della canzone italiana», il cui «fulcro simbolico» risiede, dal 1951, nel Festival di Sanremo. Da una parte, Tomatis smaschera l’artificiosità di una simile operazione, analizzando in brani tipici del genere – ma anche nella presunta radice partenopea della melodia italica – la presenza di ritmi e arrangiamenti di provenienza internazionale; dall’altra, rileva come una simile mitopoiesi si ponga in significativa continuità con il progetto nazionalistico-musicale del fascismo. A ragione, quindi, seguendo Franco Fabbri, lo studioso parla di un Trentennio della canzone italiana che dalla fine degli anni Venti arriva al 1958, quando Nel blu dipinto di blu di Modugno vince Sanremo e gli urlatori si affacciano sulla scena musicale, svecchiando con il loro stile rock il panorama sonoro della Penisola.
Ciò non toglie che la canzone italiana abbia rappresentato un ineludibile termine di confronto tradizionalista per tutte le spinte al cambiamento che la popular music nostrana ha sperimentato nel corso del tempo: dal rock’n’roll al cantautorato, dal folk al punk, dal progressive all’indie e al rap. Da questo punto di vista, sono particolarmente ricchi i capitoli centrali, dedicati alle varie ondate di dibattito che tra gli anni Sessanta e Settanta, con il discrimine epocale del suicidio di Tenco a Sanremo nel 1967, hanno mirato alla “controinvenzione” di una nuova canzone italiana portatrice di valori artistici e autenticità progressista, quando non di esplicita militanza politica, in grado finalmente di coniugare il popular con il nazional-popolare di ascendenza gramsciana. Decostruendo la vulgata storiografica di giornalisti e appassionati – molto frequente, non a caso, l’utilizzo della locuzione «in realtà» per sgombrare il campo da scorciatoie interpretative –, Tomatis riconduce il sostanziale fallimento di questo obiettivo all’incapacità di gestire senza rigidità ideologiche la formazione di compromesso fra mercato e arte che contraddistingue la popular music. Episodio chiave al riguardo il processo degli autonomi a De Gregori al Palalido di Milano il 2 aprile 1976, dopo il quale segue un percorso di riflusso che, incontrando la liberalizzazione dei mezzi di comunicazione, apre negli anni Ottanta a un’inedita alleanza di canzone e entertainment e a un crescente gusto per la retromania.
Tomatis si muove in un orizzonte di discorsi di musica e sulla musica, abbinando le rilevazioni più squisitamente musicologiche all’indagine sul fluido sistema mediatico che ha accompagnato le evoluzioni della popular music italiana. Per questo suo metodo dichiaratamente culturale, il volume presenta molti motivi di interesse anche per chi si occupa di letteratura: non solo per l’esame delle sporadiche collaborazioni fra i due mondi, come i testi di canzoni scritti dagli scrittori, ma anche in vista di una comparazione intermediale. Si potrebbe riflettere, ad esempio, sulla compartecipazione delle canzoni ai modi dell’immaginario, come nel caso dei testi realistici dei primi cantautori in un periodo in cui, lasciatosi alle spalle il neorealismo, la letteratura vira verso lo sperimentalismo; o anche sulla coincidenza, fra il 1974 e il 1975, dell’accesissimo dibattito sulle derive commerciali del revival folk con quello sulla Storia di Elsa Morante: a suggerire che inserire le varie serie culturali in un’analisi comune può riservarci curiose sorprese e, forse, impreviste soluzioni.
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