[ trad. it. di M.P. Casalena, Viella, Roma 2019 ]
Un volume di storia delle culture in Europa può appassionare anche i non specialisti, pur essendo un modello di rigore scientifico? Per riuscirci, ci voleva un curriculum come quello di Christophe Charle che, oltre a ponderose monografie, ha pubblicato sintesi molto ampie, persuaso che questo difficile esercizio sia necessario per scongiurare i rischi che derivano dall’atomizzazione della ricerca. Uno dei segreti che ne hanno fatto uno dei più eminenti storici e comparatisti contemporanei è la riflessività teorica e metodologica, evidente già nell’uso controllato delle fonti e dell’imponente bibliografia internazionale.
Come trattare un insieme dai confini fluttuanti, oggetto di lotte e controversie, aperto su altri continenti, attraversato da frontiere visibili e invisibili, tra dislivelli sociali e gerarchie simboliche, che influenzano le fonti e le tradizioni storiografiche? Charle spiega che occorre combinare in modo pragmatico varie scale e non si può prescindere dalle costruzioni nazionali e dai loro effetti. Ma lo storico deve pensare le divisioni anche in un’ottica transnazionale, sorvegliando il suo inconscio accademico franco-centrico e la doxa diffusionista, che riduce la circolazione dei modelli a una dinamica da ovest a est e da nord a sud: i flussi possono andare in vari sensi, e il loro esito dipende dalle posizioni degli importatori nello spazio di arrivo. Bisogna inoltre tener conto delle «discordanze dei tempi», visto che ogni territorio e gruppo è erede di una storia propria e non è toccato dalle trasformazioni nello stesso modo.
Charle ricusa l’economicismo di Donald Sassoon, che in The Culture of the Europeans (2006) si basa esclusivamente sul mercato e non tiene conto della dimensione simbolica (decisiva nella produzione e circolazione della cultura, anche quella di massa) né delle logiche specifiche delle avanguardie e dei movimenti militanti; Sassoon ignora, inoltre, la cultura visiva, così importante nell’età contemporanea.
Charle mira anche a correggere l’effetto deformante che nasce dalla focalizzazione delle storie letterarie e artistiche sulla cultura consacrata dalle élite urbane. Gran parte delle culture “popolari” restano in ombra data la scarsità di fonti e studi rigorosi: Charle cerca di farle emergere attraverso indicatori che quantificano la diffusione delle pratiche e dei consumi, indicando piste di ricerca quando non può esplorarle direttamente. Sottolineando le relazioni e gli scambi tra le storie finora separate della cultura “alta” e di quella “popolare”, Charle offre una comprensione inedita dell’una e dell’altra. Persuaso (come Pierre Bourdieu, uno dei suoi maestri) che l’autonomia della cultura è sempre relativa, analizza metodicamente le relazioni con la storia sociale, economica, religiosa e politica. Mostra, per esempio, che le “rivoluzioni simboliche” delle avanguardie sono favorite indirettamente da momenti di lotta politica come il 1848. Dati statistici gli permettono di documentare la crescita e diversificazione della produzione, del mercato e dei pubblici, la circolazione internazionale, le trasformazioni dovute alla diffusione di nuovi media, tecnologie e supporti.
Charle riconduce le trasformazioni delle culture ottocentesche a un processo non lineare, conflittuale, sempre provvisorio, di dérégulation (è il concetto usato nel titolo francese: La dérégulation culturelle. Essai d’histoire des cultures en Europe au XIXe siècle). L’ordine e i vincoli dell’ancien régime sono messi in discussione da dinamiche interconnesse: la crescita del mercato, l’estensione dei consumi popolari, l’autonomizzazione dei campi di produzione e la modernizzazione.
L’indice può dare un’idea della ricchezza del libro. Ma bisogna leggerlo per apprezzare i pregi che ne fanno un riferimento imprescindibile della storia culturale: la capacità di rinnovare lo sguardo, la finezza e il rigore delle analisi, la chiarezza e l’efficacia dello stile, in cui emerge una rara combinazione di impegno etico e umorismo.
Lascia un commento