Negli anni del centenario del primo conflitto mondiale gli studi dedicati alla letteratura della Grande Guerra si sono moltiplicati. In questo fascicolo di «allegoria» presentiamo una serie di saggi che tentano di collaudare approcci critici, teorici e storiografici ancora in parte minoritari nel panorama degli studi letterari italiani. Diversi quanto alle prospettive adottate, tutti i testi qui raccolti provano a ridefinire una serie di questioni chiave: il rapporto tra letteratura e contenuti ideologici; l’impatto della storia sull’immaginario; le dinamiche di negoziazione delle identità sociali e di genere che la letteratura di guerra lascia emergere in maniera plastica; la relazione tra il canone del modernismo e l’esperienza della guerra; la definizione dei confini di ciò che possiamo considerare “letteratura di guerra”. Autonomi nelle conclusioni, i saggi di questo fascicolo – la maggior parte dei quali è espressione di ricerche ancora in corso – condividono un orizzonte comune: l’idea che lo studio della letteratura, e non solo di quella testimoniale, sia tuttora cruciale per la comprensione della fisionomia della nazione in guerra e della sua cultura, ma che solo nel dialogo con altri strumenti e discipline sia possibile immergere i testi letterari in una rete fitta e complessa di fatti materiali, energie sociali, costruzioni ideologiche, rappresentazioni, vissuti individuali e collettivi. Questo non significa affatto derogare sulla specificità della forma letteraria, ma al contrario riconoscerla come una delle chiavi di accesso fondamentali all’immaginario di un’intera epoca.
Il saggio che apre la sezione si interroga proprio sulla capacità di un ampio corpus di testi letterari di rielaborare, rafforzandolo o anche smentendolo, uno dei contenuti impliciti fondamentali del discorso della nazione: il suo essere, cioè, un discorso maschile, che presuppone un sistema di rappresentazioni egemoniche e rappresentazioni subordinate della maschilità, ciascuna portatrice di segmenti diversi della pedagogia nazionale. Scavando nella forma letteraria assunta da queste rappresentazioni emergono punti ciechi, sfasature e distanziamenti dal discorso nazionale ufficiale, a testimoniare una rielaborazione straordinariamente complessa di contenuti ideologici dati. Il saggio di Cristina Gragnani esplora questo stesso spazio di fluttuazione tra rappresentazioni e ideologia dalla prospettiva delle autrici italiane che scrissero della guerra. Colmando una grave lacuna critica e storiografica, il saggio propone una mappatura ricchissima della produzione di quelle scrittrici cui la guerra e la massiccia mobilitazione del fronte interno offrirono una straordinaria occasione per entrare a pieno titolo nello spazio pubblico, e discute criticamente le ragioni della rimozione che questo settore cruciale della letteratura di guerra ha subito. Proprio sulla definizione dei confini di ciò che possiamo considerare “letteratura di guerra” si focalizza implicitamente il saggio di Massimiliano Tortora, che si interroga sulla perifericità della guerra nella produzione narrativa degli autori maggiori del modernismo italiano (Pirandello, Svevo, Tozzi, Gadda). Fatte le dovute distinzioni, Tortora individua le ragioni culturali profonde che motivano questa parziale rimozione e che hanno a che fare col rapporto ambivalente di questi scrittori con la modernità. A parziale conferma di quanto sostenuto da Tortora, il saggio di Giovanni de Leva riflette sulle origini ottocentesche del discorso patriottico nazionale dominante nel racconto di guerra. L’esercito e l’esperienza bellica come spazi-laboratorio della nazione post-unitaria sono già, secondo la tesi qui discussa, i cardini dell’immaginario patriottico al momento dello scoppio della guerra. La memorialistica e la narrativa si rivelano un terreno privilegiato per analizzare queste linee di continuità. Nel saggio di Riccardo Castellana, invece, un’indagine di impianto comparatistico esplora i residui dell’impatto che la guerra ebbe sul cosiddetto «mondo mentale» (Gibelli), individuandone il sintomo più evidente nella diffusione del tema dell’amnesia nella letteratura post-bellica. Proprio l’approccio tematico consente di osservare in una relazione dialettica il rapporto che questa produzione letteraria intrattiene con una delle zone più traumatiche della cultura di guerra. L’ultimo saggio della sezione, scritto da Giuseppe Corlito, costituisce un ulteriore case study di impianto tematico, centrato su uno dei testi principali del canone della letteratura di guerra, Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu. Attraverso l’analisi del tema dell’alcol nel romanzo di Lussu, Corlito contesta l’idea che la guerra sia stata una prova di coesione nazionale e prova a connettere la postura di Lussu a una più generale critica dell’alienazione e della modernità.
La sezione «Il presente» di questo numero di «allegoria» ospita, a complemento della sezione tematica, un saggio di public history dello storico Marco Mondini, che si interroga sulle ragioni del mancato rinnovamento del campo italiano di studi storici in occasione del centenario della Grande Guerra. È proprio a una generale resistenza ad approcci di metodo innovativi, che abbiano il coraggio di disegnare quadri interpretativi più ambiziosi, che questo fascicolo di «allegoria» intende reagire.
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