Con Troppi paradisi Walter Siti ha finalmente ottenuto quel consenso quasi universale della critica che meritava fin dai tempi di Scuola di nudo. La sua opera d’esordio aveva certo potuto contare sull’ammirazione appassionata di una cerchia ristretta ma che sarebbe sbagliato definire d’élite: le élites contano, e impongono il loro giudizio, mentre Scuola di nudo era passato come una meteora nel cielo di una narrativa italiana degli anni Novanta con cui aveva assai poco a che spartire. I nomi che venivano in mente, a chi voleva cercargli degli equivalenti, erano piuttosto la Morante di Aracoeli e il Pasolini di Petrolio. Un corpo estraneo per dimensioni, ambizioni, appartenenza d’elezione a quella che una volta si sarebbe chiamata una “civiltà letteraria” di tutt’altra natura, obbediente ad altri cerimoniali e ad altre modalità d’esistenza rispetto a quelle che si erano venute imponendo in Italia dalla fine degli anni Settanta in poi. Apprezzare non distrattamente Scuola di nudo comportava una presa di posizione – e di distanza – rispetto all’attualità; magari col senso di colpa di preferire il buon vecchio al cattivo nuovo, ma questo è un altro discorso. Non perché non si comprendessero le buone ragioni, i nessi di interdipendenza tra forma e Storia che portavano altri, praticamente tutti gli altri, a fare scelte diverse, tanto più in un’epoca in cui era definitivamente caduta, come ha scritto Berardinelli qualche anno fa, la convinzione tipicamente moderna che l’assetto presente del mondo permette di scrivere solo in un dato modo.
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