«La mafia non è un’estranea in questo mondo: ci si trova perfettamente a suo agio. Nell’epoca dello spettacolare integrato, essa appare di fatto come il modello di tutte le imprese commerciali avanzate». Quest’intuizione di Debord (Commentari sulla società dello spettacolo, in La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 1997, p. 233) potrebbe costituire la migliore esegesi di Gomorra, la straordinaria opera prima di Saviano. Il quale dà conto del suo Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra (così recita il sottotitolo del libro) precisando che non si è trattato, per lui, di attraversare province, come quelle napoletana e casertana, consegnate all’illegalità per poi tornare in luoghi in cui viga la legalità: che, insomma, egli non ha fatto esperienza della tragica eccezione a una consolante norma di civiltà per il resto ovunque diffusa. Come già per i narratori della modernità letteraria nazionale, anche per Saviano il Mezzogiorno è anzitutto la cartina di tornasole del degrado italiano. Ma, per il lettore che fermi il proprio sguardo in Gomorra come dentro un cannocchiale, la prospettiva si allarga immediatamente perché, se il Meridione è l’emblema di quel particolare Paese che, in linea con quanto avveniva nel secondo Novecento, costituisce ancora un inglorioso e tuttavia avanzato laboratorio per la politica occidentale (il berlusconismo e il neonato veltronismo lo dimostrano), appare inevitabile che Casal di Principe sia l’Occidente: che somigli al suo presente, che lasci intravedere il suo futuro.
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