Quando il giudice lo invita a tenere la sua arringa l’avvocato rimane immobile, trasognato, come se pensasse ad altro. Si alza, lentamente, solo dopo uno spazientito richiamo: ma esita ancora a prendere la parola. Tanta incertezza è più che giustificata. Il risultato del dibattimento è stato disastroso: l’unica testimonianza a favore, benché umanamente persuasiva, è stata respinta con decisione dal giudice per un errore di forma, e stralciata dal verbale.
L’avvocato, che ormai da anni frequenta più le bettole che le aule dei tribunali, aveva rifiutato, ingenuamente sicuro del fatto suo, di patteggiare contro un avversario agguerritissimo (e sleale), uno degli studi legali più prestigiosi di Boston, che rappresentava un grande ospedale di proprietà della Curia. Poi, trovandosi a corto di testi e di prove, se n’era pentito; ma non aveva più potuto sottrarsi al processo. La causa, ora, appare perduta.
Non so bene per quale motivo, rigirandomi fra le mani un’edizione scolastica dei Promessi sposi, mi sia venuto in mente il finale di un film di Sidney Lumet che parla di tutt’altro argomento. Forse qualcuno l’avrà riconosciuto, perché si tratta di uno dei migliori court-room movies della storia del cinema: Il verdetto (The verdict), uscito nel 1982, tratto da un omonimo romanzo di Barry Reed, e insignito l’anno seguente di cinque Golden Globes (e altrettante nomine per l’Oscar).
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