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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Iacopo Leoni – Louis-Ferdinand Céline, Guerra

[ trad. it. di O. Fatica, Adelphi, Milano 2023 ]

Forse il più interessante tra gli inediti di Céline trafugati nel 1944 e rocambolescamente riemersi nel 2021, Guerra – pubblicato in Francia da Gallimard neppure un anno dopo il suo ritrovamento e immediato successo di vendite – è adesso disponibile nell’ottima traduzione italiana di Ottavio Fatica. Numerosi i problemi filologici trascurati dalla frettolosa pubblicazione francese, e parzialmente affrontati dall’apparato critico a corredo del testo nella recente riedizione delle opere celiniane per la prestigiosa «Pléiade». Non soltanto il titolo è frutto di una scelta editoriale in alcun modo confermata dal manoscritto, per di più evidentemente acefalo; anche la data di composizione proposta – il 1934 – suscita, per svariati motivi, profonde perplessità. Senza soffermarsi su complessi ragionamenti di ecdotica, conta soprattutto sottolineare lo statuto di brouillon: che si tratti di un episodio espunto da Voyage au bout de la nuit – dal quale è comunque innegabile la filiazione diretta – o di un abbozzo romanzesco poi rimasto alla prima stesura e messo da parte. Solo partendo da simili presupposti è possibile collocare nella giusta luce il valore di un’opera che, se riesce ad annunciare gli elementi stilistico-tematici più rilevanti dell’immaginario celiniano, lo fa in una forma ancora incompiuta e quasi magmatica.

A riconfermare una certa arbitrarietà del titolo, la guerra è concretamente presente solo nelle prime pagine del testo: quando Ferdinand riprende conoscenza sul campo di battaglia dopo esser stato gravemente ferito sul fronte delle Fiandre durante il primo conflitto mondiale. È il punto della narrazione in cui la finzione converge maggiormente verso l’esperienza biografica dell’autore. Il resto della vicenda riguarda la convalescenza del personaggio all’ospedale militare Virginal Secours, dove lo sguardo sempre più allucinato dell’io narrante trasforma la vita delle retrovie in un teatro grottesco e deformato sul cui palcoscenico si muove un’umanità segnata da vizi, bassezze, perversioni ma accomunata dal medesimo senso di precarietà. Nella raccapricciante – e spesso comica – trasfigurazione del mondo restituita da Guerra, lo stile è già febbrile ma ancora grezzo, non lavorato dalle infinite revisioni tipiche del modus operandi celiniano; uno stile cristallizzato dunque nel faticoso tentativo di far aderire l’emozione del linguaggio parlato alle rovine della realtà. Va in questa direzione l’incandescenza di una prosa in cui gli eccessi di scurrile, violenta indecenza linguistica possono coesistere non solo con insperati momenti di fratellanza umana ma anche con dolenti squarci su una bellezza ormai compromessa dall’orrore: «C’è un gran silenzio. Lì accanto con gli uccelli è primavera. Fischiano come le pallottole gli uccelli».

Guerra ha soprattutto il merito di rivelare una poetica già formata nei suoi tratti più caratterizzanti, a cominciare dall’ampio spazio concesso ai significati ambivalenti della sessualità. Unico valore da opporre alle vuote retoriche ideologico-politiche ormai in dissesto – «tocca chiedere prontamente aiuto al cazzo, per non perdere la bussola» –, l’eros può diventare anche esperienza mortifera, vera e propria pulsione di morte in senso freudiano. A testimoniare la stratificazione di un testo impermeabile a letture assiologiche manichee, il Male è dappertutto ed è presente fin nelle sue manifestazioni più contingenti. Non per caso, è sul corpo stesso del protagonista che, fin dalla primissima pagina, si mostrano le conseguenze del conflitto: «Mi sono beccato la guerra nella testa. Ce l’ho chiusa nella testa». Sarà proprio questa martellante presenza acustica la chiave per accedere a un’interpretazione delirante della realtà che, da sintomo di malessere fisico, si trasforma via via in fonte di immaginazione e dunque in sola garanzia di racconto. Guerra illumina così un nesso che, nel Voyage, non può invece varcare i confini di un’indimenticabile ellissi: quello tra le ferite fisiche e morali patite al fronte e il bisogno di fare letteratura «con piccoli tocchi di orrore strappati al ronzio che non finisce più».

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