Un senso di estraneità, curiosità e stupore nell’esplorare un mondo altro che non è il mio.
Quanti di noi hanno sognato di scrivere questo libro?
E, con “noi”, intendo chi ha provato l’ebbrezza di incappare in un pezzo sorprendente di passato e ha fantasticato di poterlo comunicare, insieme all’entusiasmo della scoperta, liberandosi dal peso dei concetti e infrangendo la norma istitutiva dell’habitus scolastico: tenersi a distanza dall’oggetto inscatolandone la contingenza in un apparato interpretativo astraente e generalizzante. Fernanda Alfieri questo libro l’ha scritto. Si badi bene, però: in Veronica e il diavolo l’autrice si è liberata dal peso dei concetti, non dai concetti. Possiamo anzi provare a nominarli, i problemi e le questioni storiografiche sottesi alla trama. Il libro di Alfieri parla del tramonto burrascoso dell’Ancien Régime, cioè del trapasso violento tra due fasi della modernità: un tema sparpagliato nei capitoli che dettagliano gli effetti delle guerre seguite alla Rivoluzione del 1789, dalle cronache più minute alle grandi trasformazioni antropologiche (gli eserciti francesi portano con sé, per fare un solo esempio, nuove misure del tempo e dello spazio). Un altro nucleo concettuale è la dimensione globalizzata della Chiesa cattolica: la Roma di inizio Ottocento è una città cosmopolita che attrae stranieri da tutta Europa e dalla quale le istituzioni ecclesiastiche comandano e dirigono esistenze transnazionali e transcontinentali, come quella del principale fautore dell’esorcismo di cui si parla nel libro, il gesuita alsaziano François-Antoine Kohlmann, la cui traiettoria biografica spazia dagli estremi orientali dell’Europa agli Stati Uniti. Infine, il modo in cui i documenti raccontano l’esorcismo di Veronica Hamerani mette in luce conflitti di prospettive e un cambiamento di paradigma nella lettura dell’interazione tra fisiologia e psicologia: prospettive divergenti ma comunque accomunate dall’essere il prodotto di sguardi maschili su un corpo femminile.
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