Tiziana de Rogatis e Katrin Wehling-Giorgi discutono sull’articolo pubblicato all’interno del n. 83
Il seguente articolo è la traduzione in lingua italiana dello stesso, già pubblicato nel numero 83, che è possibile visionare da qui.
Tiziana de Rogatis-Katrin Wehling-Giorgi
Per citare questo saggio nel suo insieme:
T. de Rogatis-K. Wehling-Giorgi, Il realismo traumatico e la poetica del trauma nell’opera di Elsa Morante, in «Allegoria», XXXIII, 2021, 83, pp. 169-183.
Per citare la prima parte di questo saggio:
T. de Rogatis, Il realismo traumatico e la poetica del trauma: strutture narrative nella «Storia» di Elsa Morante, in T. de Rogatis-K. Wehling-Giorgi, Il realismo traumatico e la poetica del trauma nell’opera di Elsa Morante, in «Allegoria», XXXIII, 2021, 83, pp. 169-177.
Per citare la seconda parte di questo saggio:
K. Wehling-Giorgi, Realismo traumatico e poetiche del trauma: immagini onirico/fotografiche nella Storia di Elsa Morante, in T. de Rogatis-K. Wehling-Giorgi, Il realismo traumatico e la poetica del trauma nell’opera di Elsa Morante, in «Allegoria», XXXIII, 2021, 83, pp. 178-183.
La Storia è il più grande romanzo del secondo Novecento italiano, uno dei maggiori del secolo, e tra i più decisivi dell’area internazionale coeva. La sua grandezza si estende alla nostra attualità, segnata dal covid e dalla conseguente catastrofica fuoriuscita del tempo dai suoi binari.
La Storia decifra la nostra percezione apocalittica di un mondo che la pandemia ha reso all’improvviso distopico: svuotato, ammutolito dall’emergenza oppure, all’opposto, sovraffollato dall’insensata rimozione del contagio. La distopia è una slogatura temporale che il covid ha esasperato, ma che già prima della pandemia molti scrittori del Global Novel avevano messo in scena, lavorando con modi e tecniche diverse intorno ad un senso di emergenza ormai ineludibile. Rispetto a questa nuova ed estrema età dell’ansia, rispetto alla rinascita di forme complesse e moderne di realismo, sperimentate dal Global Novel, La Storia è un importante precursore e capostipite: ed è questa la ragione per cui questo mio breve saggio e quello di Katrin Wehling-Giorgi sono scritti in inglese.
Lo scenario di realtà costruito da Morante in questo romanzo è uno spazio archetipico del trauma, che collega tra loro diverse epoche: una prospettiva ancora in larga parte inesplorata. Il trauma è un senso di inermità e di terrore dell’umano di fronte al male e alle sue pratiche sociali, un impatto soverchiante e quindi non elaborabile in esperienza e linguaggio, un universo rimosso e negato le cui tracce sono rinvenibili solo attraverso spaccature, impronte, ellissi, metamorfosi e moltiplicazioni. Morante esplicita sin dalla prima soglia del testo la forza pietrificante del trauma e il suo nesso con la violenza della Storia: «Non c’è parola, in nessun linguaggio umano, capace di consolare le cavie che non sanno il perché della loro morte (un sopravvissuto di Hiroscima)»2. Questa epigrafe ci dice che il racconto è figurale: parla dello snodo 1941-1947 per parlare anche di altro, e cioè di uno «scandalo» della Storia che ha una sua tonalità universale ma che si svela nella sua estrema intensità solo nella fase dell’onnipotenza tecnologica, avviata definitivamente dalla bomba atomica.
Proprio nell’era della modernità e dello smisurato progresso delle menti, dei mezzi e delle possibilità, si rinnova il suo solo apparente opposto: una violenza barbarica e primitiva, capace di ammutolire l’umano e di farlo fuoriuscire dalla sua stessa specie, riducendolo – come dice l’epigrafe del «sopravvissuto» – al ruolo di cavia all’interno di un gigantesco e ininterrotto laboratorio sociale. Simone Weil – filosofa/mistica amatissima da Morante – legge la Seconda Guerra mondiale attraverso l’Iliade: un riuso dell’epica in chiave moderna3, che sarà poi un ipotesto decisivo per la scrittura del romanzo e per la sua capacità di contenere in sé tracce traumatiche provenienti al tempo stesso dal mito e dalla storia.
Leggendo in filigrana nel primordialismo di quella violenza mitica e feroce, Weil ne intercetta il nuovo campo di battaglia nell’alienazione dell’operaio e degli uomini-massa (i nuovi «esclaves»), nell’annichilimento delle vittime sterminate dal capitalismo e dal nazifascismo, nella trasformazione in «chose» dei carnefici stessi4. Tutti – vittime e carnefici, servi e padroni, innocenti e colpevoli – agglutinati, seppure in misura e forme ben diverse, da una «force» – la violenza e il suo trauma – che si annida nel doppio fondo del tempo e della storia. Un doppio fondo del quale il trauma della pandemia ci fa intravedere ora un diverso grumo di indicibile e di primordiale, questa volta generato da un’era ipertecnologica, e declinato nelle forme dell’indebolimento neoliberista delle strutture e dei supporti medici, nel negazionismo conclamato o strisciante, nell’impoverimento sempre più estremo e nel genocidio (penso al popolo dell’Amazzonia e a ciò che esso simboleggia).
I nessi figurali dell’archetipo traumatico messo in scena dalla Storia hanno origine da una dimensione prepolitica, che si delinea però attraverso una acuta fenomenologia della dimensione politica. E’ questo il caso della duplice forza profetica racchiusa in un personaggio centrale del romanzo: Davide Segre. La «piccola piaga gonfia e suppurata» (s 562) sul braccio di Davide – non a caso insistentemente vista da Useppe (s 595, 601), sua «Doppelfigur»5 – e la successiva morte per overdose sono il segno profetico di una tossicodipendenza ante litteram, che stava invece per esplodere proprio intorno al 1974 – anno di edizione della Storia – come fenomeno di massa, come annichilimento finale dei movimenti di lotta e di protesta.
Il secondo aggancio profetico al naufragio generazionale sta invece nelle velleità ideologiche e intellettuali del personaggio, anch’esse inscritte nella parabola di quel mondo salvato dai ragazzini. In Davide Segre, le ferite della persecuzione più estrema (quelle di un giovane ebreo torturato fino alla simulazione della condanna a morte, scappato fortunosamente dal convoglio ferroviario destinato al lager e privato, infine, della sua intera famiglia assassinata nei Campi di sterminio) non sono sanate dalla coraggiosa militanza partigiana, dal pur generoso impegno politico, dalla dedizione intellettuale all’ «IDEA» (s 411-422). L’ideologia anarchica è troppo cubitale appunto, troppo astratta e distante dal nucleo profondo del trauma, che intanto contamina con la «corruzione brutale» (s 207) dell’indifferenza (l’abbandono della adorante gatta Rossella) e della cattiveria (il feroce accanimento verso il corpo del soldato tedesco) la vita stessa di Segre, trascinando infine con sé anche Useppe e la sua innocenza (come è noto la fase definitiva del suo male esplode proprio dopo il brutale rifiuto opposto da Segre alla sua amicizia e alla sua capacità di trasfigurare in poesia il male).
È stato giustamente sottolineato6 che La Storia è paradossalmente carica di ilarità, e introduce un registro comico anche in quelle porzioni del testo declinanti verso il tragico. La coralità del sistema dei personaggi, la totalità epica della prospettiva e il continuo e reciproco travaso del novel nel romance garantiscono infatti al plot una apertura continua delle potenzialità narrative: un innesto di storie nelle storie non meno ricco di quello di Menzogna e sortilegio7. Questa apertura al multiforme della vita è il realismo, che ha però nella Storia – e poi a seguire anche in Aracoeli – una sua qualificazione specifica: è un «realismo traumatico », «un nuovo modo di vedere e ascoltare dal punto di vista del trauma»8, una capacità di rappresentare uno spazio di violenza come «zona di confine tra l’estremo e il quotidiano»9.
Nella Storia, il realismo traumatico genera uno sdoppiamento del plot, nel quale una serie di varchi costringono il lettore a scivolare verso un doppio fondo traumatico nascosto oltre la superficie del cronachistico: è il caso, per esempio, del mondo dei Marrocco, ricostruito per un verso nella sua quotidianità domestica e nella intensa verosimiglianza di ambiente e di sradicamenti, e destinato poi per l’altro a precipitare nel sottosuolo della morte erratica per ghiaccio in Russia di Giovannino (un caso analogo è il rovesciamento dell’idillio partigiano di Useppe nello spazio di una strage nazista). Vediamo qui di seguito quali sono le tecniche prevalenti del realismo traumatico nel romanzo.
L’atto della scrittura e le strategie narrative e metanarrative nella Storia non sono mai trasparenti, come un certo stereotipo del realismo ci indurrebbe a credere. In questo senso, dietro la tonalità così esplicitamente patetica e onnisciente della voce narrante femminile si nascondono qualità e tecniche opposte da cantora-sciamana e da testimone reticente, su cui è stato già detto molto10. Bisogna invece ancora interrogarsi sugli effetti di questo incrocio tra onniscienza, veggenza magico-oracolare, reticenza e partecipazione patetica della narratrice sul lettore. Qual è, per esempio, lo scopo di una narratrice che ci presenta, per un verso, nelle prime pagine «Iduzza» (s 21) maternalisticamente11, come una eterna bambina mal cresciuta, una donnetta di scarsa intelligenza, salvo poi ricostruire, per l’altro, nelle pagine seguenti, la radice della sua «idiozia» attraverso una minuziosa analessi sulla postmemoria ebraica e sul nucleo traumatico generazionale? Da cosa ha origine questo ossimoro di maternalismo e riconoscimento, questo montaggio tra superiorità ed identificazione?
Sappiamo che una radice di questa spaccatura continuamente ricucita è nel trauma ebraico transgenerazionale e nella matrofobia da Morante stessa vissute12. Ma vediamo come questa eredità diventa creatività nelle strutture del testo. Nel momento in cui incontriamo nuovamente Ida dopo la sua lunga analessi familiare, dopo questo labirinto del terrore tramandato di madre in figlia, nel momento in cui lei si imbatte in Gunther, quell’aggettivo – « disgraziata» s 43) -, che la qualifica nell’incontro, non è più maternalisto ma empatico, non esprime patetismo ma pathos: è il riconoscimento ossimorico di una «idiozia» s 21) sin dalle prime pagine postillata in realtà come «senso del sacro» (s 21). Questo trauma primordiale e prelinguistico sta nella dimensione postumana, che connette la cavia al sopravvissuto di Hiroscima. Entrambi sono cannibalizzati, divorati da una forza trascendente, che nel caso di Hiroscima e Nagasaki giunge poi proprio tecnicamente dall’alto: è «il potere universale che può mangiarli e annientarli, per la loro colpa di essere nati» (s 21).
Questo slittamento continuo della voce narrante dal patetico al pathos, dal documento testimoniale alla veggenza o nel suo opposto (la reticenza), dal maternalismo all’empatico, modella Ida come tutti gli altri personaggi e genera un profondo disorientamento nel lettore colto facendolo diventare metaforicamente analfabeta13. Sabotando la presunta trasparenza del realismo, la strategia narrativa innesca infatti in questo tipo di lettore una continua incertezza sulla propria postura: modellata inizialmente, sulle orme della narratrice, come illuministica e comoda postura superiore verso gli umili, essa viene spinta progressivamente verso una zona d’ombra, una zona liminale e simmetrica di precarietà incertezza oscillazione. Attraverso questo disorientamento, Morante sollecita nel lettore e nella lettrice una autenticità in grado di decostruire i dogmi culturali e gli intellettualismi correnti (e ricorrenti), che agiscono come potenti strutture difensive rispetto alla ricezione dello spazio archetipico del trauma. Soprattutto a questo analfabetismo di secondo grado, inteso come rinnovata purezza del cuore, pensava Morante quando ha apposto la seconda epigrafe evangelica ai «piccoli» (Luca, X-21) e la dedica «por el analfabeto a quien escribo».
Grazie a questa coraggiosa invenzione di una poetica novecentesca del pathos, la scrittrice propone un contro-racconto femminile della Storia14, che fa delle perdite tragiche del materno come delle sue dinamiche creative (anche interne alla relazione narratrice/protagonista) un emblema della condizione umana.
Un altro profondo motore di disorientamento del lettore consiste nel fatto che la narratrice investe i suoi personaggi di una compassione provocatoriamente inclusiva. La prima vittima dello scandalo della Storia messa in scena dal plot non è infatti nettamente qualificabile come tale, ma è in realtà una figura ambigua di carnefice/vittima: è quello stupratore di nome Gunther che «un giorno di gennaio dell’anno 1941 […] si trovava, solo, a girovagare nel quartiere di San Lorenzo» (s 15). Il soldato che «del mondo sapeva poco o nulla» (s 13 v. 5), il soldato il cui «cognome rimane sconosciuto» (ivi, v. 6), fa parte del laboratorio della violenza di cui parla il «sopravvissuto» di Hiroscima (è la prima cavia dell’intreccio, una recluta destinata a morire inabissata nel Mediterraneo tre giorni dopo lo stupro di Ida), ed è anche uno degli analfabeti di primo grado cui il romanzo è dedicato.
Il senso di questa epigrafe in versi al primo capitolo e il suo rapporto con le epigrafi precedenti sta nel fatto che essa condensa in forma lirica una compassione poi disseminata nella prosa del plot. Questa compassione sta tuttavia insieme, in una forma evidente di ossimoro narrativo, con la brutalità dello stupro («la violentò con tanta rabbia, come se volesse assassinarla»; «ci s’accaniva […], proprio alla maniera della soldataglia ubriaca» s 69). Un’altra forma di intrecciamento è data dall’equivoco. La dinamica dell’equivoco linguistico (Ida e Gunther non si capiscono e vivono due percezioni completamente diverse del loro incontro, quella di Gunther è nostalgica del suo mondo familiare mentre quella di Ida è sprofondata nel terrore razziale) e dell’equivoco corporeo (Gunther crede che Ida faccia resistenza al suo stupro mentre lei è assente dal proprio corpo, in preda alle convulsioni epilettiche) sono alla base di questa sintassi e drammaturgia del trauma di Ida, altrimenti incomunicabile.
L’intera scena dello stupro, d’altronde, intreccia livelli e ambiti diversi o opposti: l’amore genitorial/familiare e quello erotico, la forma umana e la metamorfosi animale, la violenza sessuale e la «straordinaria felicità senza orgasmo» (s 70) di Ida, il possesso adulto e quello infantile, il sogno e la veggenza. Come già il metamorfismo della narratrice, anche questa «abiezione», che contamina secondo Kristeva dimensioni normalmente separate dalla logica, costringe il lettore in una posizione liminale e gli consente di intercettare l’esperienza del trauma, il suo drastico fuoriuscire dalle coordinate della normalità e della temporalità.
La scena dello stupro – durante la quale Ida viene contemporaneamente aggredita da un attacco epilettico e penetrata con violenza brutale da un soldato tedesco – crea anche una esplicita simmetria tra il segno del male fisiologico e il segno della persecuzione razziale (all’origine dell’equivoco per cui Ida vede in Gunther un inquisitore delle SS, e lo fa entrare in casa) e consente quindi una simultanea rappresentazione dei due traumi.
Entrambi i segni sono determinati da una dinamica transgenerazionale, entrambi modellano in modo occulto l’individuo (Nora, Ida, Useppe), che cerca di nascondere lo «scandalo» agli occhi degli altri. Entrambi consentono tuttavia agli «impuri» (s 58) di vivere entro certi limiti, che si fanno però via via sempre più ristretti, una vita travestita da normalità15. In questa progressiva spirale simmetrica, in cui il male biologico e quello razziale si intrecciano, e il primo naturalizza e oggettiva il secondo, il plot fa emergere quel grumo di primordialismo della modernità di cui ho già parlato.
Nella dinamica del realismo traumatico, la spirale è anche una tecnica narrativa che fa scivolare continuamente il lettore dalla zona della realtà alla zona del trauma. Una serie di episodi mostrano cioè uno scarto continuo tra un piano narrativo cronachistico ad un sottosuolo dell’orrore, come ho già detto. Questo tratto ricorrente del realismo traumatico si specifica però, in diversi passaggi narrativi, come coazione a ripetere, come un imbattersi ripetuto della vittima e del lettore in segni e spazi del trauma che d’altronde non riescono mai a essere decifrati del tutto (un sintomo tipico del trauma). Questa tecnica iterativa di ritorno sulla zona del trauma «questa tecnica serve a schermare il reale percepito come traumatico» ma al tempo stesso «questa stessa esigenza [di schermatura] punta anche al reale, e a questo punto il reale rompe lo schermo della ripetizione»16. Un aspetto decisivo di queste zone del trauma è il loro effetto concentrico e dilatante, che permette il travaso dal trauma etnico al trauma storico complessivo. Sono zone del trauma: i vari tempi del ritorno di Ida al Ghetto, lo stupro di Ida (su cui cfr. il nesso tra trauma razziale e trauma biologico), l’incontro tra Useppe e il vitello alla stazione Tiburtina e la deportazione degli ebrei sempre da Tiburtina, gli stupri/femminicidi di Mariulina e sua madre e il femminicidio di Santina17, i vagabondi e i disadattati sopravvissuti ai lager e alla guerra, i sogni di Ida e le immagini fotografiche dei lager (su cui cfr. il saggio seguente di Katrin Wehling-Giorgi), purtroppo e infine la morte di Useppe – bambino indimenticabile – come ultimo ritorno della strage degli innocenti evocata all’inizio del romanzo (s 60).
Una caratteristica del trauma è la sua estrema intensità, che lo fa accadere nel tempo collocandolo però fuori dal tempo, che lo fa manifestare nel linguaggio imprimendolo però nella psiche al di fuori del linguaggio, nel silenzio della rimozione o nelle ellissi della dissociazione. Anche per questa ragione, il romanzo è costruito con una lingua semplice, che però è usata per reiterare il fallimento della comunicazione. Ma se il trauma è indicibile rimane invece sempre dicibile, e anzi creativamente potente, la rappresentazione delle zone d’ombra e delle dimensioni liminali che il trauma genera. Nel caso di Useppe, per esempio, la perdita è – per un verso – connessa con il silenzio: in molti passaggi della Storia, ricorre la quasi identica e formulaica sentenza di silenziamento: «non ne parlò più» (s 257); «né Ida gliene riparlò più» (s 249); «da allora non domandò più di lui» (s 347 etc.). Per un altro verso, però, ricorrono – e con una frequenza ben maggiore – i linguaggi speciali parlati o percepiti dal bambino: quelli attribuiti a cani e uccelli, e poi le «voci del silenzio» (s 510) – una implosione vocale della Storia con le storie, una spirale vibrante di guerra e ritornanti – percepita da Useppe nel suo speciale rifugio sulla riva del fiume Tevere. Queste lingue speciali – insieme all’intero universo metamorfico dall’animale all’umano (e viceversa) messo in scena nel romanzo e aperto proprio dalle «cavie» in epigrafe – si collocano in questa dimensione liminale, che dialoga con la perdita da una prospettiva prelinguistica.
2. Realismo traumatico e poetiche del trauma: immagini onirico/fotografiche nella Storia di Elsa Morante
Katrin Wehling-Giorgi
Nella sua fondamentale opera Sulla fotografia, Susan Sontag descrive lo straziante incontro avuto a dodici anni con una fotografia ritraente le atrocità dell’Olocausto («l’inventario fotografico dell’orrore estremo»), un’esperienza a cui si riferisce come al «prototipo della rivelazione moderna»: «Non ho mai visto nulla (…) che mi abbia ferito così nettamente, profondamente (…) qualcosa si è spezzato. (…) Mi sentivo irrevocabilmente addolorata, ferita»18.
I concetti di «ferire» o «spezzare» come risposta dell’individuo agli orrori della storia evocano il concetto di trauma. Morante ha significativamente affermato che il suo incontro con la «violenza rovinosa»19 della Seconda guerra mondiale le ha fornito l’impulso necessario a scrivere il suo primo romanzo Menzogna e sortilegio (1948); il tema della guerra offre anche l’ambientazione imperiosa del dramma personale di Arturo nella sua seconda opera, L’isola di Arturo (1957). Nel suo ultimo romanzo Aracoeli (1982), il confronto con un passato traumatico è sotteso alle tensioni principali del testo che emergono nei temi del dislocamento e della soggettività queer del protagonista. Ma è nella Storia che le atrocità della storia, appunto, – narrate in un testo che intreccia intimamente il trauma individuale e collettivo – emergono più visibilmente. Nonostante studiose come Rosa, Porciani e Lucamante abbiano individuato la natura traumatica delle esperienze dei personaggi centrali del romanzo20, le acquisizioni testuali che possiamo ricavare da un’analisi condotta a partire dalla teoria del trauma rimangono in gran parte inesplorate21.
Il presente contributo si propone di dimostrare come una lettura della Storia tramite le poetiche del trauma possa produrre una nuova comprensione della complessità temporale, strutturale e narrativa del romanzo e delle tensioni alla base del rapporto con il reale22. Partirò dalla nozione di realismo traumatico, definito da Rothberg come un concetto che pone l’accento sul referente proprio mentre mette in scena una «dimensione traumatica estrema che finisce per disattivare la rappresentazione realista»23. Dalla prospettiva di questa categoria teorica ed estetica, sosterrò che una chiave di lettura particolarmente efficace di questi ultimi consista nell’analisi delle ekphrasis di fotografie presenti nella Storia, che imitano sineddoticamente i meccanismi del trauma.
Caruth definisce il trauma come uno shock emotivo che «nella sua imprevedibilità o nel suo orrore non può essere collocato in alcuno schema precostituito»24. Poiché esperienze così ineffabili e difficili da metabolizzare possono essere comprese nel tempo e nello spazio solo a posteriori, il trauma crea una temporalità complessa e una crisi di rappresentazione intrinsecamente rilevanti per la letteratura. La fotografia ritrae questa temporalità complessa nella sua stratificazione palinsestica del passato e del presente, con il suo referente sempre già nel passato, orientato verso l’«essere stato lì»25. Tutte le fotografie danno vita a una temporalità doppia che cattura «insieme una pseudo presenza e l’indicazione di una assenza»26.
L’ampio pantheon fotografico della Storia spazia dalle foto di una giovane Nora promessa sposa fino al ritratto di Nino che arreda l’appartamento familiare, dalle foto sfocate dello stupratore Gunther e del giovane soldato Giovannino, della prostituta Santina e dell’anarchico Davide, fino ai numerosi ritagli di giornale che ritraggono vittime e carnefici dell’Olocausto. In tutte queste immagini, lo spettro della morte perseguita il soggetto fotografico, presagendo proletticamente la fine che unisce i destini individuali e collettivi. La foto di Nora è evocata dalla narratrice immediatamente dopo l’episodio in cui il suo corpo è stato trascinato sulla spiaggia (s 53); Gunther associa erroneamente il ritratto di Nino al «culto familiare dei defunti» (s 55); l’immagine di Santina, brutalmente assassinata, sottolinea il suo senso di rassegnazione di «animale da macello» (s 359), rendendo la sua foto il «segno di una predestinazione» (s 423).
Nella dimensione collettiva, le foto del conflitto ritraggono i loro soggetti come «vittime indistinguibili della guerra»27, come nel caso di Giovannino – «confuso e sfocato»; «sagome scure […] in un mucchio e infagottate» (s 583) – con il termine «mucchio» ad anticipare l’uso significativo e ripetuto da parte di Davide della parola in riferimento all’immagine dei corpi deumanizzati e impilati (s 583). Le ignote vittime degli atroci massacri nazisti che Useppe scorge tra le fotografie di una rivista sono allo stesso modo rese anonime e descritte come «macchie d’ombra» (s 371), stabilendo un legame diretto tra i destini individuali e collettivi.
Da una parte i tratti denotativi della fotografia garantiscono un accesso privilegiato al passato tramite la loro connessione materiale e catalogante del reale28, tanto da costituire una potente forma di testimonianza che spesso si rivolge all’immaginario collettivo dei lettori e delle lettrici. Dall’altra, però, l’immutabilità e l’irreversibilità delle immagini fotografiche restituiscono il momento traumatico che perseguita il presente come uno «spettrale revenant»29. Lo «stupore titubante» (s 370) di Useppe nel contemplare le immagini richiama la «rottura» («rupture») sopra citata da Sontag. Questo momento di rottura è un compagno fisso della funzione-testimonianza della narrativa di Morante come se riverberasse attraverso il romanzo nella forma di un sottotesto perturbante o di un «doppio fondo cieco» (s 135), che continua a sabotare la linearità del tempo e dell’intreccio: «un enigma, di natura ambigua e deforme, eppure oscuramente familiare» (s 370)30.
Poiché le fotografie costituiscono una forma di duplicazione del loro referente, la traduzione ecfrastica e testuale dell’immagine aggiunge un ulteriore strato di ripetizione che richiama gli elementi strutturali del trauma. In quanto «“buchi neri” nella struttura verbale»31 che eludono i racconti convenzionalmente realisti, le fotografie hanno la capacità unica di “catturare lo shrapnel del tempo traumatico»32. Insieme ad altri strumenti narrativi come sogni, allucinazioni e visioni, i momenti fotografici espongono i nuclei estremi traumatici del testo che fuggono alle forme convenzionali di testimonianza. Si può addirittura sostenere che tali strati di ripetizioni non solo riproducano ma producano effetti traumatici33 che, nel caso della finzione letteraria, coinvolgono sia i personaggi femminili e maschili che i lettori e le lettrici, incarnando un atto di testimonianza che non solo documenta ma scuote. Inoltre, poiché il trauma necessita di una ripetizione tramite il (ri)raccontare, spesso implica il raccontare una storia al posto di un’altra. Come sottolineerò qui di seguito, la voce narrante del romanzo gioca un ruolo cruciale in questo atto polifonico34 di ri-narrazione, che comprende una narratrice e le storie silenziate degli emarginati.
Le fotografie non riflettono solo la complessa temporalità narrativa, ma offrono anche una chiave interpretativa efficace della risposta dissociata al trauma dei personaggi, spesso catturata dall’immaginario visuale del romanzo. La dissociazione comporta la rimozione automatica dalla scena del trauma, dal momento che l’individuo non riesce a integrare gli elementi sensoriali a un livello linguistico o cognitivo. Tenendo in considerazione la difficolta di organizzare l’esperienza traumatica sotto forma di memoria linguistica, gli eventi traumatici sono spesso «registrati in modo specificatamente immaginifico tanto da distinguersi dalla normale creazione di ricordi»35. Nella registrazione sotto forma di immagini, i meccanismi della macchina fotografica nello specifico somigliano alla struttura della memoria traumatica36.
La dimensione onirica dominante del romanzo presenta caratteristiche proprie dell’immagine fotografica. In un episodio onirico significativo, in seguito al vagabondare di Ida senza meta attraverso un ghetto stranamente silenzioso e vuoto, la protagonista fa un sogno in bianco e nero che appare «sfocato come una vecchia foto». Nella visione onirica, Ida si ritrova davanti a un recinto dietro il quale scopre una pila di scarpe. Come in una fotografia, il sogno si fissa in una immagine eclatante: «Il sogno non aveva intreccio, nient’altro che quest’unica scena» (s 342-343). Nonostante la fissità unidimensionale dell’immagine, che ovviamente richiama i campi di concentramento, la narratrice evidenzia il suo ampio potere narrativo che segnala una realtà traumatica transgenerazionale37: «sembrava raccontare una lunga vicenda irrimediabile» (s 343).
Nella diegesi onirica, Ida cerca una piccola scarpa, tristemente consapevole che la sua ricerca ha «il valore di un verdetto definitivo» (s 342). Il sogno presagisce chiaramente un episodio successivo in cui Useppe38 si trova davanti a una fotografia sfocata (s 372 «immagini ambigue e indistinte») di una rivista che ritrae una analoga pila di scarpe, parte di una composizione di nove foto che, nel loro impatto devastante – «un’astrusità senza risposta» (s 372; cfr. s 374) – sono registrate «come fossero una immagine sola» (s 373). Come la narratrice congettura, l’analfabeta Useppe potrebbe aver frainteso l’evocativa immagine per una pila di corpi in decomposizione di una foto adiacente (s 373). Il tropo delle scarpe unisce molti strati tematici del testo, intrecciando il trauma culturale dell’Olocausto con la tragedia individuale della morte di Useppe, mentre le immagini testuali sineddoticamente imitano la natura fissa e immaginifica della memoria del trauma.
In definitiva, la natura iconico-immaginifica delle fotografie, lette attraverso la poetica del trauma, offre un codice semiotico efficace a mediare gli orrori che trapelano dalla superficie realista della Storia – «una scrittura incancellabile che gli altri non sanno leggere» (s 377). La resa visiva dell’orrore di Morante rivela quello che Rau ha definito come «punctum spettrale (spectral punctum)», una «rappresentazione sineddotica e dolorosamente oscura»39 di quello che è catturato dall’immagine ma che giace oltre la sua cornice. La poetica del trauma offre una chiave interpretativa produttiva per l’analisi dei meccanismi che sottendono alla trasmissione di un racconto non detto, così come le immagini «parlano» più intimamente per le esperienze silenziate delle vittime. Infatti, la resa testuale delle immagini fotografiche avviene in momenti di paralisi associati al trauma (s 373), ed è la voce narrante femminile che gioca un ruolo centrale nel trasformare l’orrore silenzioso in memoria narrativa.
L’articolazione del trauma richiede inevitabilmente un atto di ri-narrazione ed è quindi spesso «legato ad un’altra voce»40: è solo nel racconto della storia di Ida e Useppe da parte della narratrice che le voci precedentemente silenziate trovano espressione. È stato ampiamente dimostrato come Morante sovverta numerose gerarchie nel romanzo, non da ultimo proprio raccontando la Storia dal punto di vista degli emarginati: una madre single, un figlio illegittimo frutto di uno stupro, animali non umani. L’espressione del trauma attraverso immagini collettivamente riconoscibili offre un codice semiotico ampiamente accessibile che si rivolge all’«analfabeta» a cui questo testo è dedicato. La resa ecfrastica di momenti traumatici tramite la voce femminile, inoltre, aggiunge uno strato significativo alla spinta sovversiva del romanzo. Mentre nella teoria classica l’immagine (in quanto «oggetto» contemplato passivamente) è definita con il femminile e il soggetto parlante o guardante è identificato con il maschile41 – una concezione di genere che ha a lungo definito il soggetto del testo – la voce femminile della Storia sfida queste gerarchie di genere ecfrastiche, letterarie e storiche. Grazie alla poetica del trauma, e alla sua messa in forma di una storia non detta, la narratrice diventa la voce di una narrazione doppiamente silenziata.
[traduzione a cura di M. Pala]
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