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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Antoine Compagnon, Gli antimoderni. Da Joseph de Maistre a Roland Barthes

[ trad. it di A. Folin, Neri Pozza, Vicenza 2017 ]

Con Gli antimoderni, ora apparso in traduzione italiana, si arricchisce la conoscenza e la circolazione di un importante critico e teorico. La sua pubblicazione in Francia, per Gallimard, risale al 2010. L’edizione italiana è ampliata da una postfazione dell’autore che riprende il tema e trae un bilancio del dibattito sul libro. Esso è diviso in due parti, la prima d’impianto teorico (ed è quella naturalmente di più generale portata), la seconda di tipo piuttosto storiografico e analitico, e riguarda circa una quindicina di personaggi principali che incarnerebbero l’idea di antimoderno (ma perché Tocqueville appare solo di sbieco?). Il termine che ritroviamo nel titolo designa un atteggiamento critico e scettico nei confronti della modernizzazione e (solo indirettamente) dei Lumi, e tuttavia tale da non poter prescindere dall’una e dagli altri. Il termine più adatto a definirli sarebbe, dice Compagnon, quello di contro-moderni. Ma è un termine infelice. Dunque – la precisazione è decisiva – «gli antimoderni non sono genericamente gli avversari del moderno, ma esattamente i pensatori del moderno, i suoi teorici» (p. 23). Questo pensiero, che indubbiamente contiene un nucleo dialettico, si sviluppa lungo sei parole-chiave, sei dense «figure»: «controrivoluzione», «antilluministi», «pessimismo», «peccato originale», «sublime», «vituperazione». Decisiva sembra l’osservazione, ripresa da Barthes, secondo cui la passione della lingua salverebbe, o ribalterebbe, la durezza delle idee: scrivere significa dunque «praticare una violenza del dire, e non una violenza del pensiero» (p. 147).

Anche nella seconda parte ritroviamo spunti di interesse generale, che dunque vanno al di là del pur amplissimo recinto della cultura francese. Certo, la nozione di Antimoderni si presta a qualche resistenza, il campeggiare iniziale del nome di De Maistre ancor di più, ma va detto che la tesi è certamente stimolante. Fosse stato, il titolo, puntato su gli “antiprogressisti” avrebbe avuto forse minore attrattiva, ma sarebbe stato più preciso e forse accettabile. La tesi di Compagnon è che costoro sarebbero il “sale” del processo della modernità, proprio col tenerla a freno e vederne i limiti, ma senza rinunciare alla sua ineluttabilità e anche ai suoi reali vantaggi. Essi sarebbero così i veri moderni. Compagnon sembra ripercorrere i sentieri di Adorno da una parte e di Benjamin dall’altra, ma con una certa “sprezzatura” si nominano poco o punto l’uno e l’altro (Benjamin di sicuro, nonostante la somiglianza degli argomenti trattati). Il lavoro svolge inoltre, ma sul piano storiografico più che su quello estetico, alcuni degli spunti già presenti nel libro sui Cinque paradossi della modernità. Inoltre viene seguito il filo che congiunge almeno alcuni di tali Antimoderni al razionalismo modernizzante e al progetto illuministico e di civilizzazione (anche questa una tipica “mossa” di Compagnon). Figure come quella di Chateaubriand, per fare un solo esempio, rivelano in questo studio i punti di continuità fra modernizzazione e Genio del Cristianesimo, con la democrazia come naturale prolungamento (moderato e normalizzato) della Rivoluzione. Un’idea, a suo modo, geniale e anticipatrice di orientamenti e culture, anche di massa, dei decenni successivi. E anche questo studio, che merita certo più approfondite e dialettiche riflessioni, non manca di spunti non solo seri, ma anche molto stimolanti; a partire dalla riflessione sul tema/titolo, per passare ai nuclei concettuali contenuti nelle parole-chiave e al rapporto, infine, fra l’asse teorico e quello storico-culturale che il libro suggerisce e costruisce. 

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