[trad. it. S. Rapetti, di Bompiani, Milano 2015]
Dopo Preghiera per Černobyl’ (e/o 2002), Ragazzi di zinco (e/o 2003), Incantati dalla morte (e/o 2005) e Tempo di seconda mano (Bompiani 2014), Sergio Rapetti torna a occuparsi di Svetlana Aleksievič, premio Nobel per la letteratura 2015, traducendo il volume con cui la scrittrice bielorussa aveva dato inizio alla propria produzione narrativa. In effetti, consegnato all’editore nel 1983 ma uscito solo due anni dopo per interposizione della censura, U vojny ne ženskoe lico (Mastackaja litaratura 1985), questo il titolo originale, era rimasto ancora inedito in Italia, mentre già a partire dal 1987 aveva conosciuto pronte traduzioni in tedesco e in inglese. Tuttavia l’attesa ha avuto i suoi vantaggi, consentendo di lavorare su una versione del testo ampliata, ripresa in mano dall’autrice a di– stanza di quasi vent’anni, in un mondo in cui «tutto è cambiato, tutto è diverso» (p. 26), e reintegrata delle parti che sinora erano state censurate.
L’opera assume il valore di una rivendicazione di esistenza: sin dall’antichità le donne, che pure i libri di storia raramente menzionano, hanno affiancato gli uomini nella guerra, svolgendo ruoli altrettanto centrali, nonché portatori di una strutturale peculiarità. E proprio tale peculiarità solleva un problema che è di natura prima di tutto linguistica – l’insufficienza delle parole femminili rispetto al campo semantico militare –, il quale a sua volta denuncia il lungo monopolio maschile di un dramma che, invece, ha da sempre coinvolto non solo l’umanità, ma il mondo animato nel suo complesso, e il cui racconto non può evitare di includere perlomeno il punto di vista femminile. Sta qui lo scopo dell’intervento narrativo di Aleksievicˇ.
L’insufficienza della lingua di fronte al trauma bellico è del resto un filo conduttore che attraversa tutto il libro. «La prima cosa che ricordo della guerra? La mia angoscia di bambina in mezzo a parole paurose e incomprensibili», afferma l’autrice, nata nel 1948. In effetti, se in quegli anni «la guerra veniva continuamente evocata», pure essa continuava a rappresentare un incomprensibile e inesprimibile «mistero» (11). Il discorso di Aleksievičsi configura allora come la decodifica a posteriori, avvenuta una prima volta negli anni Ottanta e una seconda volta negli anni Duemila, di questo mistero. Tale desiderio di decifrazione spinge l’autrice alla ricerca di parole nuove, portatrici di un significato più autentico e completo, in quanto capaci di integrare i vuoti lasciati dalla retorica attraverso il racconto della carne viva, e in particolare quella femminile, dai canali ufficiali generalmente condannata al mutismo. Da qui il metodo che diventerà poi caratteristico della ricerca di Aleksievicˇ, e che già a questa altezza dà vita a un notevole esempio di iperrealismo letterario: l’utilizzo del documento umano quale frammento di verità, per una ricostruzione storica, antropologica e narrativa lontana tanto dalle pretese di oggettività quanto dalla falsità celebrativa, e capace di offrire un’immagine degli eventi inedita sia per contenuti che per struttura narrativa: la guerra delle donne raccontata dalle donne per tramite del soggetto conoscente e autoriale.
I documenti orali raccolti dall’autrice, numerosissimi, provengono tutti dai ricordi e dalle voci di protagoniste che si erano impegnate attivamente nell’esercito sovietico durante la Seconda guerra mondiale – caporali, sergenti, soldati semplici, istruttrici sanitarie, infermiere, staffette –, e sono organizzati all’interno di una cornice autobiografica. Da una parte le «testimonianze vive» e che «non si raffreddano come argilla modellata» (p. 26) costruiscono un solido piano di realtà, nonostante ne venga reclamata sin da subito la carica soggettiva. Dall’altra, l’io autobiografico arricchisce il racconto aggiungendo un piano metanarrativo, attraverso il quale l’autrice presenta il proprio approccio alla conoscenza e alla narrazione: apprendere per via diegetica la storia di cui si vuole scrivere, ascoltando i racconti fatti dai suoi protagonisti; e rielaborare quanto appreso nella forma di un romanzo polifonico, costruito dall’impasto di quelle stesse voci prese dalla vita reale.
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