[trad. it. di S. Juliani, Le lettere, Firenze 2012]
La scomparsa della DDR e le ripercussioni sulle biografie dei singoli provocate da quel rivolgimento continuano a sollecitare l’intelligenza e la creatività degli scrittori tedeschi, in particolare di coloro che provengono dalla ex-DDR. Per chi è nato nei primi anni Settanta – è il caso di Julia Schoch (1974) – il dissolto Stato tedesco-orientale costituisce lo sfondo su cui prendono forma i ricordi legati a episodi dell’infanzia e della prima adolescenza, ovvero quelle memorie decisive per la formazione della coscienza individuale. Il subentrare alle soglie dell’età adulta di un nuovo ordine politico e sociale ha al contempo permesso a coloro che nel 1989-90 avevano vent’anni o poco più di usufruire di un’inaspettata libertà e di poter accedere a percorsi formativi e lavorativi sino ad allora preclusi ai cittadini della Germania socialista.
Le sorelle di cui si racconta nel breve romanzo della Schoch incarnano con i loro destini contrapposti le due strade che si aprivano a chi abbandonava le abitudini rassicuranti acquisite nella chiusa e stagnante DDR per affacciarsi sulla nuova realtà stimolante e caotica dell’Occidente capitalista. Il ripiegamento su se stessa e, al contrario, l’accettazione entusiastica delle nuove opportunità costituiscono appunto i differenti stati d’animo che colgono le due giovani donne: la sorella maggiore che, rimasta nel luogo di nascita, si spegne in una esistenza grigia e malinconica, e la sorella minore «sempre alle prese con partenze e arrivi». Il libro, che ricorda nel soggetto e nel tono le Riflessioni su Christa T. di Christa Wolf, si configura come una commemorazione intessuta dalla sorella minore, l’io narrante, in ricordo della sorella maggiore, morta suicida a New York. La narratrice, dopo aver rievocato la comune infanzia in una cittadina sulla baia di Stettino sede di una guarnigione militare (facile scorgervi Eggesin, la città dove è cresciuta l’autrice, figlia di un ufficiale della Guardia Nazionale), ricostruisce le vicende della sorella: sposatasi molto giovane con un uomo del posto, aveva avuto due figli e non si era mai allontanata dalla città natale, divenuta dopo la dismissione della base militare una città fantasma. La morte a New York, emblema della metropoli disorientante e alienante, si staglia dunque in simbolica contrapposizione con la stanzialità della donna. Ampio spazio è dedicato dalla narratrice alla relazione amorosa che la sorella aveva reintrapreso negli ultimi tempi con un uomo già frequentato negli anni Ottanta quando questi prestava servizio militare presso la base. La sorella, che continua a chiamare l’amante «il soldato», nonostante l’uomo si ripresenti sul posto come cittadino in borghese, vive la relazione all’insegna della memoria struggente del passato e delle possibilità non realizzate: «Quando passeggiava accanto a lui, passeggiava accanto a una variante della sua vita. Quando lo abbracciava, abbracciava il fantasma di un’altra vita».
Con una prosa laconica e sorvegliata la Schoch ricostruisce efficacemente l’atmosfera triste e desolante di un luogo di provincia sperduto e sonnacchioso e lo spegnersi di ogni slancio vitale in una donna stanca e immalinconita. L’evanescenza dei personaggi e l’esilità della vicenda rendono tuttavia il racconto debole e poco convincente. Troppo vaghi e imprecisati restano i motivi che hanno provocato la crisi esistenziale della donna; nulla è detto, ad esempio, del marito e dei figli e così il contesto familiare, che sarebbe risultato utile a comprendere la depressione della donna e la sua tragica decisione finale, risulta ben poco profilato. L’assunto narrativo di base, ovvero la formulazione di ipotesi sugli ultimi mesi di vita della sorella, non basta inoltre a giustificare la scarsa plausibilità di alcuni passaggi decisivi, quali la decisione di recarsi a New York per porre fine alla propria vita da parte di una donna che non si era mai allontanata da casa.
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