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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Alessandro Bertinetto, Il pensiero dei suoni. Temi di filosofia della musica

[Bruno Mondadori, Milano 2012]

Una prosecuzione del dibattito e un lancio in avanti – potremmo sintetizzare così il senso complessivo del libro di Bertinetto: ripresa del dialogo intrapreso alcuni anni fa con il formalismo arricchito di Peter Kivy, e proposta di un punto di riferimento per proseguire il percorso d’indagine. Anche se lo studio recupera molti periodi storici e testi fondamentali attraverso rapide notazioni, l’interesse dell’autore mira a fornire un quadro disciplinare esauriente e ben organizzato dal quale emergano i principali indirizzi teorici dei filosofi musicali odierni.

Articolato in un trittico di argomenti e preceduto da un «Preludio», il libro affronta, nell’ordine, i problemi della definizione della musica e della sua ipotetica referenzialità, il rapporto con il mondo delle emozioni. Riconoscendo nell’opera di alcuni autori (Levinson, Pareyson, Robinson) una sorta di filo conduttore di base, Bertinetto affronta soprattutto la quaestio formalista, vero e proprio snodo cruciale di ogni teoria filosofica applicata alla musica. Dal criticismo kantiano e dalla considerazione della musica come disciplina “disinteressata” ed estranea al ragionamento sistematico, attraverso Hanslick e Kivy, discende un formalismo che insiste sulla disposizione strutturale, privo di scopo, ateleologico e in cui «il piacere che deriva dall’ascolto musicale sarà allora simile a quello che si prova per la contemplazione di arabeschi o decorazioni visive. […] La musica sarebbe l’analogo sonoro del caleidoscopio» (p. 49). Bertinetto cerca, invece, di restituire alla musica un’entità sensoriale che non può prescindere dal riconoscimento del piacere, deve indagarne le cause e ricondurlo al centro dell’indagine. È chiaro che la dimensione formale rimane imprescindibile: la componente analitica consente una comprensione maggiore e più profonda del messaggio musicale. Ma non basta. Oltre ai condizionamenti del contesto storico-sociale, in qualche caso davvero costitutivo (si pensi al jazz), occorre prendere atto che l’ascolto musicale investe il soggetto nella sua totalità di essere umano, sociale, emotivo, espressivo e che, dunque, non si può studiare il dato oggettivo senza l’esatta considerazione di tutti gli elementi implicati. La polemica con Kivy riprende, infatti, quanto già annotato nella Filosofia della musica dell’autore americano e ne esplicita con forza maggiore i punti critico-polemici: «Se diamo ascolto all’idea che la musica non è solo una questione di frequenze di suoni, ma ha a che fare con ascoltatori e musicisti e con processi di apprendimento che non sono meramente soggettivi, bensì culturali […], sarà più facile accettare che la musica trasmetta contenuti, soprattutto se si intende l’esperienza musicale non in termini di oggetti da contemplare passivamente, bensì di pratiche che mettono in relazione persone: compositori, musicisti, ascoltatori» (p. 67). Recuperato dall’ermeneutica il concetto di “intermedialità” e riconsegnata alla musica la propria valenza performativa, si tratterà, allora, di indagarne la componente emozionale, rifiutando il soggettivismo romantico e le poetiche dell’ineffabile, attenendosi piuttosto alla fisiologia delle risposte emotive e alla loro flessibilità e variabilità. La musica appare, quindi, come una «scienza emozionale» (definizione di Gershwin), esattamente equidistante dall’uno e dall’altro polo, disciplina scientifica che incrocia l’essere umano nelle sue componenti profonde e ineludibili, comprese quelle inconsce. «Solo grazie a una riflessione ricognitiva, che retroagisce sul processo emotivo, poniamo nomi a processi affettivi che primariamente accadono in maniera inconsapevole, per lo più come casi di eccitazione corporea» (p. 129). L’espressività della musica, allora, finisce per coincidere con il materialismo delle emozioni e sulla risposta “affettiva” del soggetto. In questo senso è possibile (e qui Bertinetto propone una sorta di sfida) la considerazione etica dell’evento musicale come luogo che può operare una metamorfosi dell’individuo e far intravedere la possibilità dell’utopia.

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