[ Artemide, Roma 2021 ]
Quando si parla della ricezione di Aristotele nelle riflessioni estetiche degli scrittori occidentali, il pensiero va subito alle dispute del classicismo rinascimentale sulle norme da rispettare per costruire un dramma di buona fattura. L’ultimo libro di Stefano Lazzarin e Pierluigi Pellini, introdotto da Simona Micali, ha invece il pregio di fare luce su un aspetto della tradizione aristotelica forse meno considerato, ma di non minore importanza: l’influenza della nozione di verosimile sui narratori dell’Ottocento. Come afferma Micali, il libro nasce sotto il segno della dualità, non per ragioni di opportunità editoriale, ma perché uno studio sul nesso vero/(in)verosimile può ottenere risultati più fruttuosi grazie al dialogo di due autori legati da anni di collaborazioni. Pellini e Lazzarin adottano come punto di partenza comune la nozione aristotelica di verosimiglianza e ne indagano l’influenza sui rispettivi campi di studio: naturalismo e verismo, da un lato, e fantastico, dall’altro. Questa doppia prospettiva veicola l’attenzione del lettore sulla matrice culturale della nozione di verosimiglianza. Il verosimile, infatti, «non è una qualità intrinseca del racconto verificabile di per sé», ma rispecchia il paradigma di realtà corrente in una determinata società, la sua doxasul funzionamento del mondo. Alla luce di questo presupposto, è possibile apprezzare le ricerche dei due studiosi, che ricostruiscono con meticolosità non pedantesca il posizionamento degli scrittori ottocenteschi (e primonovecenteschi), sui due crinali opposti del vero inverosimile e sul fantastico verosimile. Il contributo di Pellini comincia con una citazione dall’Art Poétique di Boileau: «Le vrai peut quelquefois n’être pas vraisemblable». Fin dall’acuta analisi dei molteplici livelli di lettura di Honorine di Balzac, emerge l’equivalenza tra il verosimile e il paradigma di realtà del pensiero dominante, per cui il vero inverosimile ricercato dai naturalisti finisce per coincidere con l’indicibile della società in cui nasce l’opera. Pellini cita poi le riflessioni di Maupassant sulla «democratizzazione dell’universale classicista», come opposizione all’eccezionalità romantica. Gli scrittori ottocenteschi menzionati continuano a ragionare entro categorie aristoteliche, ma si interrogano sul modo di raccontare la quotidianità senza apparire inverosimili per aver aderito troppo alle bizzarrie del vero. Appare evidente che il verosimile è una sorta di media narrativa. Ad ogni modo, è «lo stesso neo-aristotelismo naturalista […] di Flaubert, Zola e Maupassant a condurre, quasi per inevitabile evoluzione interna, a un superamento delle poetiche della verosimiglianza». Lazzarin indica sin da subito il nucleo del suo studio:
«la questione della verosimiglianza fantastica è tutta qui: il narratore fantastico deve conferire a ciò che narra i colori del vero, la patina seducente del verosimile, altrimenti la sua narrazione cadrà letteralmente a pezzi». Che il fantastico si regga sull’equilibrio tra verosimile e meraviglioso lo dimostra il successo di Hoffman: un maestro nel far convivere questi elementi nei suoi racconti, dettagliando minuziosamente gli oggetti man mano che ci si allontana dal corso ordinario delle cose. Diversa invece è la poetica di Poe, che inserisce quelle che Aristotele avrebbe chiamato «peripezie» – il caso inaspettato e la coincidenza meravigliosa – in un orizzonte cosmologico verosimile. Tra gli altri autori fantastici, poi, spicca Henry James, che punta sulla nettezza e l’intensità della rappresentazione, concentrandosi sul riflesso del soprannaturale nella coscienza di chi assiste all’evento inatteso. Pellini e Lazzarin ci dimostrano che il paradigma aristotelico continua a riverberare nella letteratura occidentale, pur a grande distanza temporale dalla composizione della Poetica. La verosimiglianza è un polo a cui tendono sia il naturalismo sia il fantastico: il primo per sottrazione, e il secondo per addizione, di verità narrativa.
Lascia un commento