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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Massimiliano Tortora – Silvia Dai Pra, I giudizi sospesi

[ Mondadori, Milano 2022 ]

Ci piaccia o meno, la borghesia, quella illuminata, dal Settecento a oggi è la classe a cui si guarda con speranza: quel ceto colto, democratico, capace di istituire e difendere l’urbano decoro, di opporsi alle derive totalitarie, di guidare la comunità. È una speranza spesso eccessiva, ma che non sconfina nella fede, diventando piuttosto costume, ethos, modo di pensare, visione del mondo. Del resto, lo ricordava Pasolini in negativo, la borghesia è una condizione esistenziale dell’Occidente; ed è anche la classe che si assume la responsabilità del cambiamento, secondo l’ottica certamente più fiduciosa di Calvino. In sintesi ha le sue virtù (competenza, efficienza, senso civico), ma anche i suoi modi di rappresentarsi, spesso civettuoli e autocelebrativi, non lontani da tic, che diventano cliché facili da parodiare.

Ma c’è dell’altro. La borghesia – almeno oggi – è anche terribilmente fragile: è sufficiente un piccolo granello nel suo meccanismo di autoriproduzione (i figli della classe dirigente devono essere i dirigenti di domani e gloriare i fasti della famiglia), perché vada in crisi: le mancano gli anticorpi che innescano la reazione, che consentono di cambiare strategia, che ammettono anche una soluzione diversa da quella prospettata e iscritta nel patto fondativo della famiglia.

L’arrivo di questo granello all’interno di un’agiata famiglia borghese è la storia raccontata da Silvia Dai Pra’ nel suo ultimo romanzo, I giudizi sospesi. È un romanzo che porta a definitiva formazione una scrittrice che prima, con Quelli che però è lo stesso, aveva gettato una giovane supplente annuale in una scuola di periferia (borghesia e proletariato per intenderci, ma da un’ottica particolare), poi aveva indagato le sue origini familiari in Senza salutare nessuno, e ora – con un’ampiezza definitivamente romanzesca – tenta il grande affresco: non ottocentesco, ma totalmente intriso di sensibilità fine Novecento/inizio Duemila. Un romanzo contemporaneo, insomma: né troppo avanti, né attardato.

Felix, il narratore, è figlio di Mauro – il professore più amato del suo liceo –, di Angela – professoressa più istituzionale ma stimatissima –, e fratello di Perla, sorella più grande che miete un successo dietro l’altro, tanto da essere celebrata spesso dalla cronaca locale, con articoli che immancabilmente inneggiano a Perla-la-perla. Sarà pure stucchevole come famiglia, ma perché non apprezzare due genitori che svolgono ottimamente, e con convinzione, il loro lavoro? E che c’è di male se una ragazza studia e ama la cultura classica? E anche il povero Felix («Piumino» in adolescenza) in fondo non se la cava così male, pur essendo circondato e stritolato da tanti giganti. E d’accordo che i Giovannetti si crogiolano nei loro successi di cittadini giusti, ma in fondo rispondono solo a quei vizi (ridicoli, per carità) e a quelle virtù che caratterizzano la nostrana borghesia. Ebbene, in questo clima da Mulino Bianco di sinistra (ovviamente è una famiglia progressista) c’è solo un rischio: le cattive compagnie (nei cui confronti si oscilla tra repulsione e paternalistica comprensione). James Tocci – bello, maledetto, superficiale – è la cattiva compagnia di cui si innamora Perla: il granello tanto temuto.

Diviso in quattro grandi capitoli, scanditi cronologicamente attorno a quattro date cardine della narrazione (1998; 2005; 2015; 2023; sì ’23, non è un refuso), Felix/Dai Pra’ racconta lo sgangherarsi di una famiglia borghese e i suoi tentativi di razionalizzare l’irrazionale. Si tratta di un quarto di secolo della nostra società. E che l’autrice voglia rendere questa vicenda una storia universale (lukácsianamente parlando) lo rivela un dato marginale, e peraltro non nuovo nella nostra tradizione narrativa (si pensi a Bassani): la piccola città di provincia tra il Lazio e la Toscana (con il suo Duomo, la piazza, ecc.) è sempre indicata con cinque asterischi, come se dovesse rappresentare tutti i salotti buoni del nostro paese. Salotti che però vanno in crisi di fronte al diverso, alla malattia psichiatrica, allo scarto tra la realtà e la propria autorappresentazione.

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