[ Oxford University Press, Oxford 2020 ]
Si impara qualcosa dalla finzione? Questa è la domanda che si pone il filosofo Gregory Currie in Imagining and Knowning: The Shape of Fiction. La sua risposta è scettica. Non c’è modo di sapere se si impari qualcosa leggendo un romanzo o guardando uno spettacolo teatrale o un film. E se sì, non è chiaro cosa si impari; ed è comunque altrettanto probabile che la finzione propaghi ignoranza, falsità, un eccessivo senso di sé e l’illusione di una conoscenza profonda (p. 218). Le aspettative sul valore conoscitivo della finzione vanno ridimensionate non tanto perché ci sono opere finzionali più o meno riuscite; questa osservazione è difficilmente contestabile, ma non dice molto. Quello che Currie cerca di mostrare è che non c’è modo di sapere se si impari qualcosa dai grandi romanzi, drammi e flm. Currie usa come esempi soprattutto i grandi romanzi della tradizione realista come Guerra e pace e Anna Karenina di Tolstoj, ma pensa che le sue conclusioni si possano estendere a opere di narrativa e di teatro antiche e medievali e anche al cinema. E chi legge Imagining and Knowning può comunque sostituire le opere d’arte finzionali che considera dei capolavori agli esempi presentati nel libro senza che l’argomentazione ne sia intaccata. L’obiettivo di Currie non è lanciare una crociata contro il consumo di finzione (p. 7), quanto valutare gli argomenti avanzati da chi tenta di spiegarne la funzione nella società e nella vita delle persone. Molti di questi argomenti condividono una concezione nota come «cognitivismo letterario», secondo cui la grande letteratura è una forma di conoscenza della realtà e il valore letterario di un’opera dipende dal suo valore cognitivo. Di che tipo di conoscenza di tratta? Secondo Currie, nessuno può sostenere seriamente che si tratti di conoscenza fattuale (p. 78). Se si vuole sapere qualcosa della campagna napoleonica o della vita dell’aristocrazia nella Russia dell’Ottocento, è meglio visitare i musei e leggere dei libri di storia piuttosto che affidarsi a Guerra e pace e Anna Karenina. A convergere sul cognitivismo letterario sono filosofe come Martha Nussbaum e figure influenzate dalla psicologia cognitiva e dalla biologia evoluzionista come Lisa Zunshine e Brian Boyd. E a interessare loro sono due tipi di conoscenza distinte da quella fattuale o «proposizionale» (know that) come lo sviluppo di capacità (know how) o la conoscenza per familiarizzazione (acquaintance) in ambito psicologico e morale (pp. 82-87). Ad esempio, Nussbuam sostiene che leggendo finzione si scopra come ci si sente a essere (what it is like) un’altra persona e questa conoscenza aiuti a sviluppare empatia e ad affrontare dilemmi morali. Nella prospettiva naturalista di Zunshine e Boyd la finzione permette a chi legge di capire altre menti e imparare a interagire in scenari sociali complessi. Anche se non sviluppato in modo sistematico, il cognitivismo letterario si trova poi alla base dell’umanesimo tradizionale, quando si afferma ad esempio che la grande letteratura rivela qualcosa di profondo sulla condizione umana a cui forse non si avrebbe accesso altrimenti (p. 165).
Quello di Currie è un libro denso, ma la sua obiezione è semplice. Il cognitivismo letterario è una tesi sull’effetto della letteratura su chi legge e quindi è empiricamente verificabile (pp. 7-8). Ma i dati raccolti dalla psicologia sperimentale suggeriscono che le storie finzionali non hanno alcun effetto sulla capacità di capire altre menti o di provare empatia. E se si guarda più in generale alle ricerche flosofche ed empiriche su mente, conoscenza, creatività, immaginazione e morale, è difficile capire a cosa porti il consumo di storie finzionali. Secondo Currie questo dovrebbe indurre ad assumere un atteggiamento di cautela. Per Currie ci sono più ragioni per affermare che le grandi opere della letteratura e del cinema possono coinvolgere chi le consuma attivandone l’immaginazione, i desideri e le emozioni; ma l’immaginazione può portare alla conoscenza così come all’errore.
Lascia un commento