Quando, nel 1961, Hannah Arendt pubblica la raccolta di saggi Tra passato e futuro, altro non fa che proseguire il discorso iniziato dieci anni prima con Le origini del totalitarismo e dimostrarne l’attualità. Nel suo capolavoro aveva infatti spiegato come il totalitarismo sia stato l’esito delle aporie della modernità. È dai limiti, concettuali e giuridici, dello Stato-nazione ottocentesco; è dal logorio dei paradigmi di sapere elaborati tra XVIII e XIX secolo; è dalla conseguente atomizzazione di una società in cui ogni individuo diventa l’anonimo componente di una massa standardizzata e amorfa, che esso a suo avviso prende corpo, determinando una frattura storica epocale: almeno in Occidente, i regimi totalitari esauriscono l’intera tradizione politico-culturale precedente, aprendo un’ancora indefinibile fase nuova. La crisi dell’autorità e dell’agire, della libertà e della famiglia, della cultura e dell’istruzione che, nel volume successivo, la Arendt scorge in tutte le democrazie occidentali, Stati Uniti compresi, e che implicitamente invita a monitorare, temendo possa favorire, anche nel Paese in cui dal 1941 vive, forme “morbide” di totalitarismo, discende appunto da questa traumatica interruzione della continuità sia storica sia culturale.
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