[Adelphi, Milano 2006]
Immagino che molti lettori, ammaliati dalla Suite francese (Adelphi, Milano 2005) di Irène Némirovsky (Kiev 1903-Auschwitz 1942), abbiano compulsato avidamente le pagine di David Golder, primo romanzo pubblicato dalla scrittrice in Francia nel 1929. La traduzione italiana delle sue opere, già celebri negli anni Trenta, fa seguito alla scoperta del dittico inedito di romanzi che compone la Suite, solo rimasto di un progetto ben più ambizioso. Figlia di un ricchissimo banchiere russo emigrato in Francia dopo la Rivoluzione, vissuta fino al 1940 nella ricca società cosmopolita gravitante tra Parigi e la Costa Azzurra, al momento dell’occupazione nazista la scrittrice, ebrea apolide, subisce tra i primi la discriminazione razziale; dal rifugio che ha trovato in provincia si accinge all’impresa di «osservare freddamente » «il Paese che la respinge», e compone una “sinfonia” di cinque romanzi, di cui riesce a compierne due prima di essere deportata.
La Suite traccia un ritratto della Francia occupata freddo e corrosivo, vivo e coinvolgente nel narrare la divaricazione delle traiettorie individuali nella sorte collettiva, e costituisce un pendant occidentale di Vita e destino di Vassilij Grossman, similmente destinato a rimanere a lungo – fino al 2004 – ignoto. Altrettanto ma diversamente coinvolgente – non per scene corali e moltiplicazione incrociata di destini, ma per la concentrazione sul vertiginoso precipitare della sorte del protagonista – è David Golder, il cui manoscritto si narra sia stato divorato in una notte dall’editore Bernard Grasset. Alla mente del lettore italiano la vicenda del finanziere ebreo, lucido artefice del proprio tracollo per amore di un’unica, terribile e ingrata figlia non sua, non può non ricordare la trama del Mastro-don Gesualdo: la stessa concentrazione su un unico binario narrativo volto all’autodistruzione del personaggio, lo stesso predominio del denaro su ogni aspetto dell’esistenza.
Morte e denaro si intrecciano dalla prima pagina, in cui Golder rifiuta di soccorrere finanziariamente il suo socio inducendolo al suicidio, fino all’ultima, in cui il portafoglio colmo di sterline è l’emblematico lascito di Golder allo sconosciuto che ne veglia gli ultimi rantoli. Dopo una vita in cui era stato tutto – stimolo di un’operosità ossessiva, mediatore per ottenere da moglie e figlia l’apparenza dell’affetto – il denaro è l’unica cosa che resta di lui: il giovane ebreo che lo veglia, doppio del suo io giovane, accetta le sue sterline ma non l’amaro insegnamento su quanto sia vano l’anelito alla ricchezza. Il romanzo è un epicedio di questo come di qualunque Streben, un desolato vanitas vanitatum non riscattato da nulla, neppure dalla passione per ciò che Golder non conosce, l’amore e la giovinezza – poiché Golder non ama la figlia Joyce per se stessa, ma come incarnazione di ciò che non ha mai posseduto.
Anche il mito della giovinezza, cui soltanto sarebbe concessa una vita autentica, è devastato nell’unico punto del romanzo in cui si esce dalla prospettiva monolitica di Golder: la fuga d’amore di Joyce non si rivela altro che la vacuità animale di due splendidi corpi, indifferenti a tutto nello stordimento dell’alcool e del sesso. Il cinismo e la crudeltà dello sguardo di un narratore privo di pietà si nutrono dell’odio di sé dell’ebreo, lo Judenselbsthass che impregna le descrizioni di Golder e della sua “razza”, e che irrita la nostra consuetudine al politically correct, la nostra coscienza dello sterminio degli ebrei d’Europa e della mutilazione subìta dal corpo della civiltà europea con la fine della cultura ebraica askenazita. Eppure il ricordo delle vie sordide del villaggio della sua infanzia è l’estremo frammento di umanità concesso a Golder prima di morire.
Nessuna nostalgia dello shtetl, ciò nonostante, quella nostalgia in cui Magris individua il fascino della letteratura ebraico-orientale agli occhi di un Occidente alla continua ricerca di un favoloso mondo delle origini, prima del peccato originale del progresso. Nessuna nostalgia, solo la nichilistica constatazione che nulla rimane all’uomo che muore, se non lo sciocco rimpianto per ciò da cui è fuggito per tutta la vita.
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