[Einaudi, Torino 2007]
È appena uscita, per i tipi di Einaudi, la Breve storia della musica occidentale di Paul Griffiths. Occorre dire subito che non si tratta di un manuale: nessuno studente potrebbe preparare esami su questo testo. Questa di Griffiths è una lettura che presuppone le conoscenze e vi edifica una sua particolare ricostruzione. Ciò significa che non vi troveremo elenchi di opere, biografie, indicazioni tecniche. Griffiths punta al cuore del problema e lo svolge in un linguaggio chiaro e divulgativo. La “sua” storia è un percorso parziale che ha individuato nella corrente cronologica alcuni momenti-chiave. Prima di vedere rapidamente i punti forti del suo discorso, prendiamo in considerazione gli anelli “deboli” del sistema. Innanzitutto il taglio fortemente anglofilo del libro, portato a privilegiare (e a sopravvalutare) certe esperienze compositive inglesi o americane rispetto a quelle continentali.
Facciamo un esempio: Griffiths tratta tutto il mondo del melodramma con una certa aria di sufficienza, e nel giro di un paio di pagine risolve il capitolo sull’opera italiana dell’Ottocento. Sono scelte più che legittime, soprattutto se non si prende in esame l’aspetto della ricezione delle opere, ma meno giustificabili qualora ci si dilunghi sulla produzione di Ferneyhough, Cowell e Carter. L’autore vuole costruire una nuova mappa storicoestetica (la parte “forte” del suo discorso). L’evoluzione della musica è vista a partire dalle forme del tempo: al mutarsi del paradigma cronologico si collega la diversa organizzazione dello scorrere musicale, del ritmo, delle battute.
Dai canti gregoriani, che «avevano origine nel tempo intero dell’eterna identità» (p. 21), al sistema mensurale delle durate e vicino alla costruzione dei grandi orologi delle cattedrali gotiche, agli orologi da tavolo (e privati) del primo Quattrocento, dai cronometri marini (1770) alla considerazione soggettiva del tempo, alla nuova scansione introdotta dalla Rivoluzione Francese e alle invenzioni degli ultimi due secoli (metronomo, microfono, Long-Playing, CD, Internet). Griffiths, che pure non lo cita mai, eredita la prospettiva epiepistemologica messa a punto da Koyré (Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, saggi del 1948, edizione francese del 1961).
Il musicologo ne sviluppa, per esempio, il tema degli orologi medievali e del cronometro. Il Tempo storico-musicale, infatti, è suddiviso in epoche definite proprio dall’atteggiamento umano di fronte all’esperienza cronologica: Tempo intero; misurato; percepito; conosciuto; incorporato; sfuggente; aggrovigliato; perduto. A livello di macrostruttura, inoltre, Griffiths stabilisce una proporzionalità diretta fra icasticità definitoria e lontananza storica. Così come nel passaggio dal Tempo intero (dai Babilonesi ai Franchi) al Tempo perduto (dal 1975 in poi) la musica acquista uno spazio sempre più ampio, allo stesso modo la scrittura di Griffiths passa da poche definizioni globali alla dispersione definitoria degli ultimi decenni.
Si intuisce l’aspetto sconvolgente di tale “evoluzione”: una temporalità progressivamente controllata, misurabile e matematica che, tuttavia, sfugge alla messa a fuoco. Collocata l’età aurea nel periodo classico, Griffiths si trova costretto in una contemporaneità in bilico fra apocalisse e palingenesi: la speranza di rintracciare un senso nella Storia non nega la difficoltà di un Tempo infinito e parcellizzato che, proprio «mostrandoci ciò che gli manca» lascia intravedere attimi di futuro.
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