[ Salerno Editrice, Roma 2019 ]
Il nuovo libro di Antonio Saccone si distingue tra gli studi di letteratura contemporanea per la singolare capacità di congiungere l’analisi affilata dei testi con una visione ampia del secolo più contraddittorio e complesso, costruendo un percorso interpretativo di mirabile coerenza che illumina gli snodi fondamentali del Novecento: «Un libro coerente e organico, disegnato sulla trama mossa e problematica della modernità novecentesca e del suo costituirsi come tradizione» (p. 9). Si compone così un panorama avvincente come una narrazione, una sorta di canone della modernità novecentesca dominato dalla dialettica – spesso drammatica e distruttiva tra presente e passato, annunciata dal titolo che riprende una lettera di Ungaretti a Giuseppe De Robertis del 7 giugno 1949, a sottolineare il motivo che unisce qui autori diversi quali lo stesso Ungaretti, Marinetti e i futuristi, Comisso, Palazzeschi, Quasimodo, Domenico Rea, Raffaele La Capria, Montale, Sciascia, Calvino, Primo Levi e Luzi.
Sono le voci dell’originale polifonia composta da un critico d’eccellenza capace di elevarsi al di sopra del labirinto, svelandone i meandri principalmente attraverso la lezione di Ungaretti, poeta che incarna l’essenza ossimorica del “Secolo breve” conteso tra ordine e avventura, tradizione e invenzione, memoria e oblio. Né si può dimenticare a questo proposito la fondamentale monografia dedicata da Antonio Saccone a Ungaretti (Salerno Editrice, 2011), il quale non per caso inaugura anche «Secolo che ci squarti… secolo che ci incanti» nel capitolo «“I miei antenati”. Gli auctores di Giuseppe Ungaretti», anteposto ai saggi sul futurismo, secondo una scelta densa di significato. Tutto da notare è poi il riferimento programmatico all’«arte nuova classica» nella Premessa: «Ne scaturisce un diagramma siglato dall’urgenza di perseguire una novità continuamente rinnovata e al contempo memore, attraverso la quale predicare e praticare “un’arte nuova classica” (per stare ancora al lessico ungarettiano): un modo per riconvertire reciprocamente tradizione e modernità, eterno ed effimero» (p. 9).
Viene in mente a questo proposito il Baudelaire del Pittore della vita moderna, il quale definiva il senso della “modernità” proprio attraverso il binomio di eterno ed effimero, cogliendo per primo la novità dell’elemento transitorio che entrava nell’arte per creare e ricreare costantemente il nuovo. Il senso della costruzione del futuro sulla distruzione del passato emerge con evidenza nei capitoli dedicati al futurismo, di cui Antonio Saccone è interprete oltremodo acuto, come attesta la sua ricca produzione critica sull’argomento. Particolarmente significativa appare l’idea della «rigenerazione dell’arte» attraverso l’«apocalisse della modernità», insieme alla «teoria del fare artistico come atto incessante di procreazione, da distruggere e da ricostituire di continuo» (p. 10).
In queste pagine la modernità dialoga costantemente con la tradizione e con i “classici”, da rileggere e rielaborare per creare il nuovo con movimento veloce e incessante. In tale prospettiva è tutto da notare il sottotitolo del volume Studi sulla tradizione del moderno, che ribadisce il gioco ossimorico del titolo, ad affermare la centralità della tradizione nella fucina della modernità novecentesca, spesso conflittuale anche nel rapporto con il passato. Sorge spontaneo qui il riferimento a Eliot e a scritti come Tradizione e talento individuale (1919), che indaga il rapporto tra la creatività dell’artista e il patrimonio della tradizione intesa paradossalmente come elemento necessario all’originalità dell’opera poetica. E così, in perfetta sintonia con i grandi teorici della modernità, Antonio Saccone elabora la propria “tradizione del moderno” esplorando temi quali la Grande Guerra, l’incrocio tra letteratura e scienza, la metropoli, con una scrittura di rara lucidità che congiunge mirabilmente rigore e passione, acribia filologica ed eliotiano “senso storico”, a creare un nuovo classico della critica letteraria contemporanea.
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