[ Sapienza Università Editrice, Roma 2019 ]
Secondo tempo di un lungo percorso di ricerca, il nuovo volume di Elena Porciani esce a tredici anni di distanza dall’Alibi del sogno nella scrittura giovanile di Elsa Morante (2006), con il quale la studiosa veniva a colmare la lacuna critica relativa alla ricca produzione giovanile dell’autrice. Come già lì, qui uno stereotipo di lungo corso viene smontato con forza: quello di Morante non è un talento «senza modelli» che nasce dal nulla con Menzogna e sortilegio; la sua scrittura è tutt’altro che «irriflessa e impetuosa». Morante ha una «preistoria», e questa già testimonia l’«afflato autoriflessivo e sperimentale» che attraversa tutta la sua produzione e che permette a Porciani di fare del «laboratorio della finzione» dell’autrice non solo un luogo privilegiato di indagine ma anche, e soprattutto, uno strumento ermeneutico per approcciarsi alla sua opera. Questo laboratorio è al contempo il campo e l’oggetto di studio del saggio. È il campo, perché l’approccio genetico della filologia d’autore si serve del ricco materiale di archivio contenuto nella Biblioteca Nazionale Centrale di Roma; è l’oggetto, perché entrare nel laboratorio della finzione significa indagare dall’interno l’inventio di Morante, comprendendone le forme, i modi e le costanti. Far dialogare filologia e teoria nell’orizzonte dell’interpretazione è d’altronde lo scopo dichiarato del libro, che prende le mosse da alcuni testi (i racconti giovanili Via dell’Angelo e Peccati, Menzogna e sortilegio, La Storia e Il ladro dei lumi) nell’intento di «riconoscere nel nesso di memoria poietica e immaginazione modulare la chiave della metamorfica magmaticità dell’opera morantiana» (p. VIII). Dall’azione combinata di queste, infatti, nascono «quelle variegate costanti di lungo periodo che fanno la riconoscibilità del discorso morantiano» (p. 32). Non si tratta solo del ritorno di temi e motivi che più o meno significativamente contraddistingue l’opera di ogni scrittore; è, in modo più radicale, l’idea che questa continua ricorrenza sia alla base dell’immaginario di Morante e ne riveli il funzionamento.
Tra i modi di quest’immaginario, Porciani ne individua due principali, il romance e il novel, e riconosce nella loro dialettica l’esito di una «formazione di compromesso» volta a far coesistere istanze contrastanti: la fiaba e il realismo, l’irrazionale e il razionale, il sogno e la realtà. Su tutti vale l’esempio di Menzogna e sortilegio (cui è dedicato il capitolo più cospicuo del libro), il romanzo che dietro il simulacro del fiabesco cela la triste mediocrità del mondo borghese. È la stessa mediocrità di cui soffre il protagonista di Aracoeli, l’ultimo romanzo della scrittrice, a riprova della complessa ma forte continuità che caratterizza la produzione di Morante, e che spinge giustamente Porciani a rifiutare l’ennesimo cliché sulla sua opera: l’esistenza di una dicotomia che pone una distanza netta tra una prima fase di «beatitudine obliosa» (Garboli), da cui nascono Menzogna e sortilegio e L’isola di Arturo, e una seconda fase all’insegna della pesanteur che dalla Storia porta ad Aracoeli tramite la mediazione del Mondo salvato dai ragazzini. Non solo, infatti, questa divisione ignora completamente l’esistenza di una prima lunga fase giovanile che dalle prove infantili e adolescenziali della preistoria arriva fino al 1942, anno della pubblicazione delle Bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina. Ma, soprattutto, contro ogni dicotomia, Morante sin dall’inizio fa della tensione tra spinte contraddittorie la forza della propria opera e del rapporto romance–novel un binomio fondamentale. Per questo Porciani preferisce parlare di «discontinuità nella continuità», trasformando l’idea della «duplicità senza soluzione» attraverso cui la stessa Morante descriveva l’ambivalenza sottesa ai rapporti umani in una brillante chiave di lettura della sua opera.
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