[ Aracne, Roma 2018 ]
A dispetto del titolo molto specifico, quello della storica del teatro Raffaella Di Tizio è un libro di vasto respiro, innovativo sotto diversi aspetti. La prima parte è un contributo alla rivalutazione critica del regista Vito Pandolfi – al secolo Ribelle Libero Pandolfi (1917-1974) –, «strano uomo di teatro», militante socialista, che negli anni dell’affermazione della regia e del tramonto del grand’attore si fece alfiere di un teatro fondato invece proprio sull’attore e sul momento della messa in scena: un teatro popolare, inteso come rito collettivo, libero da interferenze statali e nutrito di una tradizione che va dalla Commedia dell’arte a Totò; un teatro di rivolta, concepito come «arma di combattimento» e «paziente lavoro educativo»; ma anche un teatro «teatrale», antesignano in questo senso di alcune delle più vitali esperienze drammaturgiche di oggi. Formatosi nella Roma del ventennio all’Accademia di Arte Drammatica di Silvio D’Amico, ma guardando anche al Teatro delle Arti di Anton Giulio Bragaglia, Pandolfi – che nel ’41, entrato nella resistenza clandestina, tenta di far saltare in aria con una bomba una statua del duce – collauda la sua idea di teatro l’11 febbraio 1943, mettendo in scena come saggio di fine corso The Beggar’s Opera di John Gay in una versione che farà clamore, e che Di Tizio legge come momento di svolta in cui l’inizio di un nuovo teatro incrocia la fine del fascismo.
La seconda parte del libro ripercorre la circolazione del teatro di Brecht nell’Italia fascista, ricostruendo con ricchezza di materiali i primi capitoli di una storia – raccontata ancora recentemente da Alberto Benedetto (Brecht e il Piccolo Teatro) e Massimo Bucciantini (Un Galileo a Milano) – che di solito si fa cominciare nel 1956 con la messa in scena strehleriana dell’Opera da tre soldi: scopriamo così, copione alla mano, che la «commedia jazz» La veglia dei lestofanti messa in scena nel 1930 da Bragaglia nella traduzione di Alberto Spaini e Corrado Alvaro e portata in ben quattordici teatri fu una versione assai fedele alla prima berlinese del 1928, di cui esaltava consapevolmente il lato cabarettistico e scanzonato; scopriamo, meglio di quanto già non si sapesse, che la principale fonte sul teatro di Brecht erano i dischi della Dreigroschenoper (pare che solo fra il ’28 e il ’32 fossero usciti una quarantina di 78 giri, ciascuno contenente due-quattro pezzi) e, in seconda battuta, il film trattone da Otto Pabst nel ’31; e scopriamo che Pandolfi si ispira innanzitutto a questi dischi nell’adattare – come Brecht stesso aveva fatto – il testo settecentesco di John Gay al contesto del proprio tempo.
E qui arriviamo alla terza parte del libro, che non figura come tale nell’indice, ma è di fatto costituita dall’ultimo capitolo, che da solo occupa un terzo del volume, e dall’intermezzo programmatico Contro il teatro visto dal testo, da leggersi a mo’ di introduzione: la ricostruzione dello spettacolo andato in scena al Teatro Argentina è infatti un’applicazione esemplare di quella che Pandolfi stesso avrebbe definito «fenomenologia dello spettacolo». Confrontando diversi copioni annotati, le fotografie di scena di Oscar Savio, i bozzetti per le scenografie di Toti Scialoja, le partiture autografe delle canzoni di Roman Vlad, le recensioni dei critici e le testimonianze dei protagonisti, Di Tizio fa rivivere scena per scena quella sera dell’11 febbraio 1943, dai costumi, ai gesti degli attori, alle reazioni del pubblico. Diventa allora chiaro, tra l’altro, ciò che le cronache dell’epoca non potevano riferire, e per cui qualche tempo dopo Pandolfi fu arrestato: il poliziotto Gionata Catena, interpretato da Carlo Mazzarella, parodiava sottilmente Mussolini, Manlio Busoni, nei panni di Peachum, il Presidente di Confindustria Giuseppe Visconti di Misurata, e Vittorio Gassmann, alias Mac il Bel Pirata, Galeazzo Ciano, mentre il coro cantava «Corna a chi c’impon la legge / e sfruttare vuole il gregge. / Viva viva la libertà!».
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