[nuova edizione tradotta e commentata da L. Crescenzi, Mondadori «Meridiani», Milano 2016]
«Come autore di romanzi mi trovo sicuramente a uno stadio successivo rispetto a Tolstoj e sicuramente, più che a lui, sono vicino a quegli scrittori che hanno sperimentato con la forma del romanzo e con la sua dissoluzione, a Proust, a Joyce, persino a Kafka». Prendendo sul serio questa affermazione di Mann, Luca Crescenzi ci consegna un Faustus tutto nuovo rispetto a quello che conoscevamo nella pia e tempestiva traduzione di Ervino Pocar (1949): caso esemplare di come una nuova edizione – che include un eccellente saggio critico introduttivo, una nuova traduzione e fondamentali integrazioni al testo – possa riorientare radicalmente la lettura di un classico.
Perno della rilettura di Crescenzi è la messa in discussione dell’attendibilità del narratore, Serenus Zeitblom, simpatica incarnazione dell’umanesimo borghese di matrice illuminista, ma allo stesso tempo mistificatore, che ricostruisce con puntiglio inquisitorio la vita dell’“amico” Adrian Leverkühn allo scopo di dimostrarne la compromissione col “diavolo”, ovvero con gli elementi più irrazionalistici e pericolosi della tradizione culturale tedesca. In realtà non c’è alcun patto col diavolo, o meglio ce ne sono almeno due: da una parte quello di Adrian, l’esteta antiborghese che fonda la propria etica nell’art pour l’art rischiando di assecondare i peggiori spiriti del proprio tempo, o quantomeno di non opporvi alcuna resistenza; dall’altra quello del doctor philologiae Serenus, reincarnazione del professor Faustus cinquecentesco e goethiano, che denunciando l’amico scagiona se stesso, allontanando dalla cultura che rappresenta qualsiasi sospetto di complicità col demonio nazista. Sono le due posizioni dell’estetismo nietzscheano e dell’umanesimo militante che lo stesso Mann ha fatto proprie in fasi successive della sua traiettoria, e delle quali nel Faustus mette in scena tutte le ambivalenze, per tentare, sullo scorcio della guerra mondiale, di superarle.
Come? In due mosse. La prima: l’ormai settantenne autore dei Buddenbrook relega nel passato le due “vecchie” posizioni mettendone alla prova le aporie sullo sfondo storico della Germania dei primi trent’anni del novecento, dandoci un romanzo flaubertiano in cui non ci sono innocenti. Il Faustus, in questo senso, non è affatto una vita d’artista, ma una sorta di “foto di gruppo con artista” fittissima di personaggi, un pretesto per raccontare un mondo in cui i sentimenti di amicizia, la cultura e l’eros si corrompono in nome dell’interesse, dell’ambizione o dell’aridità. Per questo la traduzione è particolarmente attenta all’impianto polifonico del romanzo (e in particolare ai rari brani in cui la voce di Adrian è restituita senza la mediazione del suo biografo, redatti in una commistione di tedesco moderno e medioevale qui resi persuasivamente con un impasto dantesco).
Mann sperimenta quindi – seconda mossa – una forma di scrittura che possa corrispondere a una posizione nuova. «Alla fine l’estetismo, nel cui segno gli spiriti liberi insorsero contro la morale borghese, appartiene anch’esso all’età borghese, e superare questa significa uscire da un’epoca estetica per entrare in un’epoca morale e sociale», scrive in un saggio del ’47. Al romanzo, l’opera d’arte che non può e non deve prendere partito, affianca dunque un testo che invece mette in scena la coscienza etica che l’ha prodotto, distinguendo la voce dell’autore da quelle dei suoi narratori e personaggi: La genesi del Doctor Faustus, “romanzo di un romanzo” opportunamente pubblicato in appendice, costituisce questo tentativo, che si rifà al Journal con cui Gide aveva corredato I falsari, ma forse anche al personal essay di tradizione anglosassone frequentato da Mann durante il suo esilio americano. Quanto di più vicino si possa immaginare all’autofiction. Ma firmata Thomas Mann.
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