[in collaborazione con il Toneelhuis di Anversa e il Toneelgroep di Amsterdam di I. van Hove, Romaeuropafestival, Teatro Argentina, 8-9 ottobre 2016]
Non si sono ancora spente le luci in sala quando il narratore-protagonista comincia la sua requisitoria contro il pubblico, subito chiamato a sentirsi complice e non mero spettatore della rappresentazione cui andrà ad assistere: «Sono uno di voi: se non la pensate così siete pregati di uscire perché non sarete di nessuna utilità». Appare il fondale di scena, sorta di muro che verrà riconvertito in schedario delle atrocità o schermo dei sogni (più propriamente incubi) del protagonista. Altri personaggi compariranno, ma il punto di vista prevalente rimarrà quello di Maximilien Aue, l’ex ufficiale nazista al centro di uno dei romanzi più discussi degli ultimi dieci anni: Les Bienveillantes (The Kindly Ones, nella versione inglese) di Jonathan Littell. Lo spettacolo di Cassiers, recitato in fiammingo, ne mette in scena una versione al tempo stesso straniante e fedele (non però alla traduzione italiana, in cui, ad esempio, il disturbo psicosomatico che affligge Aue dopo le esecuzioni di massa consiste in scariche di «merda» invece che di «cacca», come più pudicamente si legge nei sovratitoli). L’adattamento teatrale, nel sintetizzarle, rende letteralmente visibili le implicazioni più crude del lucido monologo di Aue, con una serie di quadri sempre più dettagliati, pur senza connotati espliciti (mancano le divise naziste o altri segni distintivi). La questione principale, come nel romanzo, è la coesistenza di umanità e disumanità nella stessa natura o, più nello specifico, la possibilità comune a qualunque uomo di ridursi da un lato a esecutore impersonale di ordini folli («chi resta a guardare non è meno colpevole di chi materialmente spara», secondo la logica perversa dell’eccidio), dall’altro di resistere e di opporsi fisicamente oltre ogni limite alla violenza subita. Quest’ultimo è il corollario più originale di una tesi che fa rivivere l’Olocausto dalla prospettiva del carnefice, per giunta guardandone all’operato senza giudizio ma nella nuda disamina dei fatti. Prima che come tragedia storica, l’Olocausto è qui concepito come una macchina in grado di mobilitare enormi strutture e competenze: per obbedire agli ordini del Führer era necessario stabilire come e dove sterminare gli ebrei, ma soprattutto sapere come e quanti costiparne nei fossi, nei treni, nei forni («Anche 1500 a sessione». «Quanto tempo serve?». «Mezz’ora»: questo, per lo più, il tenore di dialoghi che non pongono mai o non direttamente la questione morale). Del romanzo la messinscena sacrifica tutta la parte psicanalitica (e la gemella di Aue, oltre che sua madre, figure simboliche di ovvia rilevanza), soffermandosi a lungo sui sogni e sull’omosessualità del protagonista, con un’allusione alla pedofilia. Se l’avversione nei confronti delle donne può presentarsi come risvolto della cieca devozione alla causa, la debolezza verso il piccolo violinista ebreo o il figlio del guardiano del campo rivela l’unico tratto di umanità che sopravvive al non ritorno segnato dalle esecuzioni di massa, problematiche tanto da un punto di vista pratico che soggettivo, se arriveranno a scatenare la prima crisi del protagonista. La burocratizzazione del male è un passo oltre la banalità di Hannah Arendt, perché Aue non è solo un servo di stato ma un esecutore tormentato e cosciente che arriva a chiedersi perché non si impieghino i nemici come forza lavoro effettiva, invece che massacrarli senza profitto. L’altra forte crisi seguirà all’incontro con una donna, ma non gli impedirà di arrivare all’estremo dell’omicidio di Thomas, l’amico di sempre. Quando le luci si riaccendono (dopo circa tre ore e mezza), lo spettatore è saldamente ancorato a un sentimento di profonda alterità: nascere “in tempo di pace”, dirà uno scrittore italiano alcuni anni dopo Le benevole, può servire a coltivare rassicuranti immagini di fuga, senza lasciarsi cadaveri alle spalle. L’altra soluzione è la catarsi: i cadaveri li fa sulla scena (o sulla pagina) uno che vorremmo chiamare mostro ed è invece “proprio come noi”.
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