[il melangolo, Genova 2015]
Giorgio Bertone ci offre quattordici voci, corredate da note e da una Cronologia minima, per leggere o rileggere l’opera in prosa di Natalia Ginzburg, mediante il confronto con Montale, Pavese, Calvino, ma anche con Bachtin, Garboli e altri. Le voci – si spiega nella Premessa – sono da leggere «di seguito» e non da consultare come un’enciclopedia. Ciascuna di esse è una sorpresa. Così la prima, Vita, parla di un manuale per le medie del 1981, intitolato appunto La Vita, a cura di Natalia Ginzburg e della sua amica Clorinda Gallo. Ne parla attraverso una recensione in cui Italo Calvino, sulla «Repubblica» dell’11 giugno del 1981, insieme alla Ricerca delle radici, antologia personale di Primo Levi, menziona l’antologia scolastica del medesimo anno, organizzata, in maniera anti-intellettualistica e in contrasto con le tendenze di strutturalismo, narratologia eccetera, secondo un «disegno secco», per momenti ed eventi essenziali della vita, dal nascere, all’infanzia, alla malattia, fino al morire.
La voce Autobiografia riguarda la figura predominante della sillessi, nella quale Natalia, in Lessico famigliare e un po’ dappertutto, congiunge un livello «serio importante, e uno basso minuscolo, apparentemente di poco o nessun conto», la Storia e «l’autobiografia intima», propria o del gruppo, «la descrizione narrativa e il saggismo». Si veda ad esempio la voce Figli, su ruoli e responsabilità tratteggiate in racconti-saggi come Le scarpe rotte (dove la scrittrice, a Roma nel periodo dell’occupazione tedesca, sa di dover tener duro poiché ha dei bambini cui provvedere, garantendo loro, almeno da piccoli, le scarpe in buono stato che lei non ha), I rapporti umani (sui cambiamenti nel modo di guardare agli altri dall’infanzia all’età adulta, che inizia proprio dall’amore doloroso per i figli), La vecchiaia (dal punto di vista della «vecchia madre», affaccendata perché le preme prendersi cura di figli e nipoti, non tanto della casa in sé). Un’altra voce, Fiaba, rammenta l’articolo Senza fate e senza maghi, del 16 aprile 1972, scritto per contestare il «programma pedagogico» della collana «Tantibambini» di Einaudi, diretta da Bruno Munari: la Ginzburg «va oltre la polemica spicciola, giunge al cuore della questione» e dice di preferire le Fiabe italiane raccolte da Calvino al «falso modernismo» che pretenderebbe di abolire lupi cattivi, paure, autorità e inibizioni, cancellando proprio quanto serve a crescere.
La voce più ampia è Dio: per Bertone, Natalia supera «con uno scarto laterale» millenni di domande, da Giobbe, ad Achab, a Caproni, quando afferma che nessuno, al di là delle convinzioni, ha il diritto di dire ai bambini «Dio non esiste» (L’infanzia e la morte); lei sola riesce ad «abbassare al prosastico, al domestico, al “comico”, le tetragone questioni filosofiche, teologiche ed escatologiche» (cfr. Sul credere e non credere in Dio).
L’ultima voce del libro porta il nome di Serena, cioè Serena Cruz, la piccola sottratta dal Tribunale dei Minori alla famiglia di Francesco Giubergia, che se ne era dichiarato padre naturale pur di toglierla subito da un orfanatrofio di Manila e crescerla in Italia, a Racconigi, con la moglie Rosanna, insieme a un altro bambino filippino già regolarmente adottato dalla coppia. La Ginzburg aveva allora combattuto una «tenace, coraggiosa battaglia» affinché Serena fosse restituita a chi le voleva bene, aveva pubblicato vari articoli e un pamphlet, Serena Cruz o la vera giustizia (1990), scagliandosi contro la mentalità tiepida dei giudici e di quanti, in nome di un astratto bene superiore, erano pronti a distruggere affetti e legami, forse imperfetti ma reali.
Abbiamo citato alcune voci in cui si ritrovano testi, passi e temi a noi particolarmente cari; non sveliamo le altre, su questioni non meno importanti. Giorgio Bertone è mancato il 1° gennaio 2016: davvero in questo denso, piccolo volume, di una novantina di pagine, ha lasciato un bel «gruzzolo lessicale» a coloro che già amano Natalia Ginzburg e ai «lettori a venire».
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