[a cura di F.R. Recchia Luciani e C. Vercelli, il melangolo, Genova 2016]
Quanti studiosi dello sterminio ebraico non firmerebbero domani la moratoria contro la produzione di nuovi film sulla Shoah proposta nel 2009 dal critico Stuart Klawans? (E forse, a giudicare dalle testimonianze pubblicate in Pop Shoah? da Raffaella Di Castro, la firmerebbero anche non pochi figli e nipoti di sopravvissuti). O, per restare in Italia, quanti non sottoscriverebbero le argomentazioni esposte da Elena Loewenthal in Contro il Giorno della Memoria (2014)? Le provocazioni di Klawans e Loewenthal danno voce alla diffusa irritazione di fronte alle rappresentazioni trivializzate, banalizzate e semplificate della Shoah che si sono moltiplicate in maniera esponenziale dagli anni ’90 in poi: un’irritazione provata innanzitutto da chi per biografia, interessi intellettuali o scelte professionali ha a che fare con un materiale storico incandescente e problematico (problematico da un punto di vista etico, prima ancora che emotivo).
Alle reazioni istintive è bene sempre far seguire l’analisi, com’era prassi abituale per Primo Levi. Nel capitolo dei Sommersi e i salvati (1986) intitolato «Stereotipi», lo scrittore non si limita a descrivere il sentimento provato di fronte alla «spaccatura che esiste, e che si va allargando di anno in anno, fra le cose com’erano “laggiù” e le cose quali vengono rappresentate dalla immaginazione corrente, alimentata da libri, film e miti approssimativi»: si sforza anche di comprendere, laicamente, i meccanismi che generano stereotipi e approssimazioni, così demoralizzanti per chi l’esperienza di Auschwitz aveva vissuto e raccontato. Partendo da una simile combinazione di irritazione ed analisi, di passione etica e rigore argomentativo, nei saggi raccolti in Pop Shoah? filosofi, studiosi di arte e di cinema, storici e insegnanti si confrontano con le trasformazioni subìte nell’ultimo quarto di secolo dalla narrazione dello sterminio.
Il sottotitolo segnala l’ambito principale in cui si muovono i diversi studi: un “immaginario” che, etimologicamente, è composto innanzitutto di “immagini”. La Shoah diventa davvero pop quando della sua narrazione si impadroniscono gli apparati di produzione audiovisiva di massa, quando le immagini che la raccontano, ripetendosi e decontestualizzandosi, si trasformano in “icone”: dal cappottino rosso di Schindler’s List alla “carinizzazione” di Anne Frank operata in momenti successivi da Broadway, Hollywood e dai manga giapponesi. Queste icone, moltiplicate ossessivamente dagli obblighi celebrativi del Giorno della Memoria, cancellano l’evento storico e lo trasformano in figura retorica: la Shoah come simbolo, metafora, metonimia di un male che, avulso dalla storia, si fa metafisico e assoluto.
Eppure è attraverso questa trasformazione che la Shoah è divenuta, come ha scritto Tony Judt, il “biglietto d’ingresso” per l’Europa: riconoscere la centralità del genocidio nazista nella storia del ’900 significa riconoscere i valori supremi dell’Occidente, negati dallo sterminio stesso. Il rischio evidenziato da tutti i saggi di Pop Shoah? è però che l’inflazione di questa memoria generi un’identificazione con le vittime volatile, fatta più di commozione che di conoscenza, e per di più eticamente discutibile, essendo fondata sulla «possibilità per chiunque di appropriarsi di qualsiasi cosa, persino delle altrui tragedie, per consumarle come se gli appartenessero da sempre, come se ne fosse il più intimo custode e testimone» (così l’antropologo Cristiano-Maria Bellei a p. 22).
È soprattutto alla scuola che tocca il non facile compito di districarsi tra la memoria esclusivamente empatica sollecitata da agenzie politiche e industrie culturali e una didattica della storia che rispetti l’alterità del passato pur enucleandone un senso per il presente: un compito che oggi deve passare innanzitutto attraverso la decostruzione dell’immaginario semplificato continuamente riproposto da apparati mediatici onnivori, pronti a trasformare ogni cosa in prodotto e consumo.
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