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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Francesca Lorandini – Émile Zola, J’accuse

[ a cura di P. Pellini, il Saggiatore, Milano 2022 ]

Il volume presenta due interventi di Zola sull’affaire Dreyfus: il celeberrimo J’accuse…!, cioè la lettera al presidente della Repubblica Félix Faure uscita nel gennaio del 1898 in prima pagina su «L’Aurore», e la Dichiarazione che pronunciò nel febbraio successivo di fronte al tribunale civile, per difendersi dalle accuse di diffamazione nei confronti della Corte Marziale, poi pubblicata sempre su «L’Aurore». Zola negli anni dell’affaire scrisse altri testi, ma Pellini riunisce e ritraduce proprio questi due per isolare il gesto compiuto da Zola, decisivo tanto per la vicenda del capitano ebreo che per la nostra storia politica, civile e intellettuale. Il primo permise concretamente di smuovere (e spaccare) l’opinione pubblica su un caso che da quattro anni le alte sfere politiche e militari non volevano far uscire dall’ambito di pertinenza della Corte Marziale, e che Zola rese invece un caso di coscienza nazionale.

Nel J’accuse…! ripercorre le fasi del processo, racconta i fatti acclarati e l’opacità dell’istruttoria, mostra l’infondatezza del capo di accusa, nomina i colpevoli, mette in piazza i panni sporchi dello Stato Maggiore, e conclude la sua denuncia con quell’anafora martellante che ha fatto la storia della retorica civile. Nella Dichiarazione si difende: dice di non aver oltraggiato l’esercito, ma di aver fatto in modo che la verità venisse alla luce, agendo da cittadino che esige chiarezza, per amore della patria e della città in cui ha vissuto e che ha celebrato nei suoi libri. È in nome della sua professionalità e dell’autorità che si è guadagnato da «libero scrittore» (p. 93) che può garantire che Dreyfus è innocente. Tra le colpe che Zola pagherà in prima persona c’è l’accusa di voler fomentare una guerra civile – ricatto morale con cui la ragione del potere tenta di bloccare il coraggio individuale della denuncia. I due interventi, tradotti con cura e rigore, sono accompagnati da un utilissimo apparato critico: ci sono essenziali note al testo e c’è una preziosa cronologia che permette di capire le implicazioni personali e pubbliche di Zola nell’affaire. E soprattutto ne viene illustrato il valore di rottura in un saggio in cui Pellini inquadra l’importanza storica e simbolica del gesto dello scrittore, smontando una serie di luoghi comuni, spiegando come e perché la forma di intellettuale incarnata da Zola vada distinta dall’intellettuale legislatore di stampo settecentesco, dallo scrittore vate o profeta di primo Ottocento, ma anche dall’intellettuale organico novecentesco. Zola non è neanche il prototipo del giornalista d’inchiesta: è in tutto e per tutto uno scrittore moderno, che raccoglie l’eredità illuminista e riprende alcuni tratti dell’eroismo romantico, ma «che può parlare dei destini generali precisamente in nome dell’autonomia dell’arte» (p. 127).

Zola sfida la legalità, porta il caso fuori dalle stanze del potere, scuote gli animi e soprattutto interpreta, dà un senso politico e sociale allo scandalo (questo valore rivelatore ricorda un libricino semisconosciuto del 1938, Silhouette du scandale, in cui Marcel Aymé parla, da romanziere, delle possibilità offerte da uno scandalo di rintracciare le forze reali che agiscono sotto la superficie delle convenzioni). Pellini chiarisce inoltre il ruolo che altri hanno avuto nell’affaire, parla di figure che la storia ha dimenticato o rimosso (come Urbain Gohier), e sviluppa una riflessione sul modello di intellettuale che nasce con l’affaire e su come questo modello sia stato interpretato, e deformato, nel Novecento. Nel saggio che chiude il volume, Daniele Giglioli, servendosi del talento rivelatore di un altro romanziere, Philip Roth, si concentra sullo spettro della guerra civile che negli ultimi cent’anni ha attraversato il dibattito pubblico, e mostra come l’emulazione dell’atteggiamento accusatorio di Zola sia divenuta un riflesso condizionato della postura intellettuale novecentesca, una postura che rischia di rimandare soltanto a sé stessa, quando non riesce più a guardare la tragedia dell’uomo nella sua umanità.

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