[Einaudi, Torino 2007]
«Ma la cosa più straziante è sempre la normalità, il constatare ancora una volta che la realtà della morte schiaccia ogni cosa», afferma il narratore dell’ultimo romanzo di Philip Roth, Everyman (il titolo è lo stesso di un anonimo dramma allegorico quattrocentesco, che mette in scena la chiamata di tutti gli esseri umani alla morte). Il tema dei romanzi di Roth è sempre una contraddizione irresolubile, anzi la irresolubilità stessa di ogni contraddizione. In una società fortemente squilibrata, e grazie agli squilibri cresciuta smisuratamente, quale quella americana, la contraddizione è inevitabile.
Non è certo una contraddittorietà ontologica: è il prodotto del modo in cui questa società si è formata; ma tutti sanno che essa resterà così, senza rimedio, imperfetta monca e traumatizzante; che tutti i possibili progetti di riforma o trasformazione o palingenesi, di crescita senza limiti e di conquista di nuove frontiere non la cambieranno mai: più cresce, più resterà inevitabilmente com’è. A differenza degli europei, gli americani credono nell’economia politica, ma non hanno il mito della rivoluzione. Sono materialisti, ma non dialettici. Riflette il protagonista di Everyman in occasione della morte del padre: «Esisteva solo il nostro corpo, venuto al mondo per vivere e morire alle condizioni decise dai corpi vissuti e morti prima di noi».
E davanti alle tombe dei genitori: «Erano ossa e basta, ossa dentro una bara, ma le loro ossa erano le sue ossa, e lui andò a mettersi più vicino a quelle ossa che poteva, come se la vicinanza potesse unirlo a loro e ricollegarlo a tutto quello che se n’era andato ». «La carne si dilegua, ma le ossa durano. Le ossa erano l’unico conforto che esistesse per uno che non credesse nell’aldilà e sapeva con certezza che Dio era un’invenzione e che questa era l’unica vita che avrebbe avuto». La famiglia ha una posizione centrale nell’esistenza del protagonista di Everyman, ma è un’istituzione vuota di significati etici: dà sostegno materiale e conforto, ma non dà senso alla vita.
Per cui è sempre in agguato la possibilità che l’ordine e la moralità si rovescino nel loro contrario: il protagonista, spinto da un forte impulso sessuale, rovina il rapporto con la migliore delle mogli possibili e finisce per sposare la donna più inadatta a lui; il suo maggiore sostegno, pratico e morale, è il fratello Howie, e anche con lui finisce per allentare i rapporti solo per un’assurda gelosia: il fratello gode di una perfetta salute, mentre lui è malato. La vicenda del romanzo è quella del progressivo rivelarsi della fragilità del corpo, dalla comparsa dei primi segni di malattia alla catastrofe finale. Essa è inquadrata tra la scena collettiva del funerale, nella quale il protagonista viene presentato attraverso i discorsi commemorativi della figlia e del fratello, e la finale constatazione: «Arresto cardiaco. Non esisteva più, era stato liberato dal peso di esistere, era entrato nel nulla senza nemmeno saperlo. Proprio come aveva temuto dal principio».
È una vicenda esistenziale di malattia e di morte, di errori catastrofici che potevano essere evitati ma che alla fine il protagonista riconosce come inevitabili, perché dovuti al suo temperamento, e il temperamento è immodificabile. È protagonista, certo, anche la società americana, col suo panorama di rovine e i suoi sempre precari residui di moralità puritana, ma non c’è, in Philip Roth e in genere, direi, negli scrittori americani, la tendenza a drammatizzare l’origine politico-sociale dei guasti provocati al vissuto individuale: la vita è un problema che riguarda l’individuo, e quindi è alla sua individuale responsabilità che si fa riferimento. Nasce da questo, credo, il realismo dell’odierna letteratura statunitense: dalla sicurezza con cui sa individuare il teatro del dramma, che è quello dell’individuo e della sua sofferenza, senza deviazioni su altri problemi, che appaiono propedeutici, o marginali.
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